“La sinistra deve smettere di far abbassare l’asticella nel lavoro”. E’ l’epilogo del video, ormai virale, in cui una giovane ingegnera edile demolisce il “sistema” incapace di riconoscere paghe adeguate. E di quel sistema considera responsabile la Sinistra italiana. Eppure non bastano più nemmeno i 28 anni di questa lavoratrice a riassumere la parabola discendente del rapporto tra i partiti del centrosinistra e il mondo del lavoro, tanto è lungo l’elenco di riforme, ma anche di occasioni mancate, che lega quell’area politica alla precarizzazione e all’impoverimento di chi vive del proprio stipendio. “Oggi il Partito democratico è sicuramente il principale responsabile di questa situazione”, commenta l’avvocato Vincenzo Martino, giuslavorista e decano delle battaglie per i diritti del lavoro. E aggiunge: “L’occasione per una legge sul salario minimo c’era, l’hanno lasciata scappare”
Il Pd oggi è in cerca del suo nuovo segretario e i principali candidati, Bonaccini e Schlein, rimettono in discussione il recente passato, dal Jobs act alla natura stessa del partito, che secondo il governatore dell’Emilia Romagna deve essere “più popolare“. Insomma, un cambio di rotta che legittima chi sostiene che il partito avrebbe tradito il suo mandato e i in particolare il mondo del lavoro. Ma si tratta davvero di tradimento? O quelle scelte sono il frutto di un patrimonio genetico già presente al momento della sua fondazione? Tocca riavvolgere i nastri. Già negli anni novanta è la sinistra al governo di Dini, Prodi e D’Alema a insistere sull’eccessiva rigidità del mercato del lavoro, che il cosiddetto Pacchetto Treu del 1997 si propone di “svecchiare” a partire dall’introduzione del lavoro interinale, oggi in somministrazione. Ma si metterà mano anche ai contratti a termine ampliando le possibilità di prorogarli e alla decontribuzione del part-time.
L’attacco dei governi Berlusconi sarà frontale fin dalla retorica contraria all’articolo 18 e in favore di maggiore libertà di licenziare senza la quale si giustificava la riluttanza degli imprenditori ad assumere. E’ l’esigenza della famosa flessibilità che dal 2003 la legge Biagi traduce in più di 40 tipologie contrattuali. Ma di flessibilità si parla anche a sinistra, anzi si comincia a distinguere tra i nuovi lavoratori “non garantiti” e gli altri, quelli con un contratto collettivo nazionale, “iper garantiti“. Martino ribatte seccamente: “In realtà pativano la concorrenza degli altri, che i datori di lavoro erano sempre più liberi di utilizzare”, grazie all’estensione dei contratti a termine, alla diffusione delle collaborazioni “a progetto” e all’implementazione della somministrazione. Tra responsabilità dirette e occasioni mancate, è quella la politica che eredita il nuovo Partito democratico nato nel 2007. “A quel punto erano già cambiate molte cose, dal ceto rappresentato allo stesso rapporto con il sindacato di riferimento, la Cgil”, spiega Martino. “Su salari e diritti ci si era già spostati verso la mediazione degli effetti di un sistema neoliberista che veniva dato per assodato”.
Un processo in corso, dunque, che non si ferma. Anzi, a sinistra la flessibilità diventa “flexicurity“, quel compromesso tra elasticità in uscita e garanzie crescenti che nel Partito democratico è ormai un mantra. “Nel 2012 il governo Monti e la ministra Fornero depotenziano l’articolo 18 e inizia un processo che renderà più complicato l’accesso alla giustizia dei lavoratori”, racconta l’avvocato Martino. “Si introduce addirittura una tassa, mentre prima il processo era gratuito, e in generale la causa di lavoro viene resa una corsa a ostacoli e il processo più complicato e più costoso”. Non solo, “nel 2014 una legge impone al lavoratore soccombente di pagare le spese legali al datore”. Una scelta che i dem difendono, compreso il futuro ministro del Lavoro Andrea Orlando, certi di ridurre le cosiddette cause temerarie. “In realtà si disincentiva ulteriormente chi non ha mezzi economici alla difesa dei propri diritti”.
E finalmente si arriva al Jobs act del Pd di Matteo Renzi, quello che otto anni dopo, nella corsa alla segreteria qualcuno indica come un errore. Ma che a mettere in fila le tappe precedenti sembra invece fin troppo coerente. “Quella riforma ha indebolito la tutela sui licenziamenti riducendo i lavoratori a una condizione di soggezione ulteriore, di ricattabilità e debolezza, rendendo più facile e soprattutto meno oneroso licenziare”. La reintegra, spiega Martino, “era quasi diventata una chimera, e solo l’intervento della Corte Costituzionale e in parte della Cassazione hanno mitigato il danno”. Nel frattempo il problema dei salari bussa alle porte come non mai. “La concorrenza delle nuove forme contrattuali, del precariato dilagante, ma anche di dinamiche come le delocalizzazioni e la segmentazione del processo produttivo, hanno impoverito il lavoro”, spiega il legale. Che citando l’articolo 36 della Costituzione osserva: “Del fatto che la retribuzione sia proporzionata se ne deve occupare la contrattazione collettiva, siamo d’accordo, ma del fatto che la retribuzione deve essere innanzitutto sufficiente se ne deve occupare il legislatore”.
Le occasioni per fissare un salario minimo legale ci sono state. Ma anche quelle per rafforzare la contrattazione collettiva, indebolita da salari bassi ormai presenti anche in molti Ccnl. “Con livelli d’ingresso spesso di pochi euro l’ora, sul fronte salariale anche il contratto collettivo è venuto meno come strumento, con l’Italia unico paese europeo ad aver registrato una regressione negli stipendi degli ultimi trent’anni”, spiega citando gli ormai famosi dati dell’Ocse. Il primo governo Conte mette il tema sul tavolo, ma l’opposizione dei sindacati è netta e il Pd si accoda in modo acritico. E anche quando sarà al governo nel Conte 2, con una proposta di legge, la Catalfo, “che era una buona legge”, dice Martino, l’occasione sfuma. “Avevano tutto il tempo di approvare la legge sul salario minimo e invece la riforma si è incagliata in commissione lavoro al Senato dove il Pd è stato il principale protagonista delle lungaggini che hanno frenato la riforma”. E non è l’unica legge a ritrovarsi con i bastoni del Pd tra le ruote. “La legge sulle finte cooperative e sugli appalti fittizi ,che tanto hanno contribuito ad impoverire i lavoratori e a renderli ricattabili, non è riuscita ad andare al voto nemmeno in commissione alla Camera, presieduta dal Pd che non l’ha mai calendarizzata”.