Siamo inondati da libri su Internet: un genere letterario a sé, ormai, con spazi dedicati nei palchetti delle librerie. Di solito sono libri di denuncia, con titoli apocalittici per attirare il lettore: Come internet sta uccidendo la democrazia, ad esempio. Capita più raramente, invece, che uno stesso libro contenga, insieme, tre cose indispensabili: un’introduzione aggiornata alla rivoluzione digitale, un sondaggio su cosa ne pensano gli italiani, un’analisi dei tentativi in corso di regolamentare Internet. Sono questi gli argomenti dei tre capitoli de Il governo delle piattaforme. I media digitali visti dagli italiani (Meltemi, 2022), di Gabriele Giacomini e Alex Buriani.
Il primo capitolo aggiorna appunto sullo stato dell’arte degli studi sul digitale, definendo i termini indispensabili per comprenderlo, e spiegando fenomeni e processi in un linguaggio comprensibile a tutti. In particolare, Giacomini approfondisce la sua critica alla (pretesa) disintermediazione: il fenomeno per cui noi utenti crediamo di aver accesso diretto e gratuito, dis-intermediato, appunto, a informazioni e contatti un tempo gestiti da commercianti, tecnici, scienziati, giornalisti, politici. Lo crediamo. In realtà, dipendiamo da motori di ricerca e piattaforme ancora più incontrollabili dei mediatori tradizionali, e che paghiamo con i dati estratti da mail, post, tweet, in un processo detto neo-intermediazione.
Il secondo capitolo fornisce i risultati del sondaggio curato soprattutto da Buriani, e conferma che i sospetti sui nuovi media si stanno diffondendo anche fra i loro utenti. Come scrive Antonio Casilli nell’Introduzione, fra la pratica e l’opinione degli italiani c’è una sorta di disallineamento (p. 13): da un lato, il 75% usa i social, dall’altro l’83% sa benissimo che i suoi dati verranno usati per scopi pubblicitari e commerciali. Eppure, dovendo indicare chi dovrebbe rimuovere o almeno segnalare le fake news che circolano in rete, oltre il 60% degli italiani preferisce che lo facciano le stesse piattaforme private – cioè loro dipendenti spesso impreparati e sottopagati – piuttosto che autorità pubbliche (27%) o indipendenti (9%).
Se si aggiunge che il sondaggio è stato condotto prima della pandemia, quando eravamo meno dipendenti da internet, e su un campione di intervistati che ha accettato di rispondere alle domande, forse non si dovrebbe indulgere all’ottimismo.
Infatti, il terzo capitolo, dedicato alle riforme in atto mostra che gli italiani sono ampiamente favorevoli a regolamentare la rete, specie nei tre settori che sollevano più problemi: la protezione dei dati personali, su cui c’è già il GDPR dell’Unione europea (2016, in Italia dal 2018); l’antitrust, cioè la legislazione contro i monopoli dei giganti della rete; la qualità dell’informazione, cui tutti teniamo moltissimo salvo non fare proprio quel che sarebbe necessario, ossia controllare le fonti delle informazioni per valutare se siano credibili o no.
Nel complesso, il libro assume un atteggiamento di riformismo costruttivo, che tiene conto delle richieste degli utenti. È favorevole alle regole europee perché a problemi globali, ormai, possono rispondere solo istituzioni sovranazionali, e fra queste la Ue, a differenza degli Usa, non ha interessi nazionali da difendere. Pure i diritti a Internet, richiesti dagli utenti anche in vista di una loro costituzionalizzazione, sono elencati dal libro in ordine di preferenze.
Primo non viene più il diritto di accesso a Internet, ormai dato per scontato, ma il diritto all’oblio, cioè alla rimozione delle informazioni personali imbarazzanti, richiesto da quasi il 95% degli italiani.