di Sergio Malcevschi

In tema di cambiamenti climatici c’è un dubbio che sta crescendo: che non siano più raggiungibili gli obiettivi del modello di transizione “corrente”, quelli definiti dall’accordo di Parigi del 2015 (1,5 °C di temperatura globale da non superare) e dalle politiche europee (zero emissioni da fonti fossili e neutralità climatica entro il 2050). Il Wmo (World Metereological Organization) ha appena confermato (gennaio 2023) che gli ultimi 8 anni sono stati quelli più caldi mai registrati e che si prevede che il riscaldamento globale e altre tendenze del cambiamento climatico a lungo termine continueranno a causa dei livelli record di gas serra che intrappolano il calore nell’atmosfera.

Nella sua sintesi del 2022 l’Iea (International Energy Agency) evidenziava come anche le emissioni globali di CO2 fossero rimbalzate bruscamente al livello più alto di sempre. Un articolo dello scorso novembre su Science aveva mostrato come punti di non ritorno climatico altamente critici (tipping points) possono già essere stati considerati superati. Un articolo apparso nello scorso luglio sulla rivista Energy Policy indicava l’esistenza di 425 “bombe di carbonio”, progetti di estrazione di fonti fossili di energia da oltre 1 giga-tonnellata di anidride carbonica potenziale; progetti già avviati in 10 paesi (i principali: Cina, Russia, Stati Uniti, Arabia Saudita) che dovrebbero essere disinnescati per mantenere gli obiettivi di Parigi.

Nel novembre scorso l’Economist pubblicava un brutale e motivato articolo dal titolo “Una verità scomoda. Il mondo mancherà il totemico obiettivo climatico di 1,5°C. Bisogna affrontare il fatto”. Per non parlare della crisi energetica provocata dalla guerra in Ucraina: ha sì prodotto richieste positive di aumento delle energie rinnovabili, che però sono state sovrastate dal ritorno in grande stile dei combustibili fossili, con la sostituzione del metano dalla Russia con nuove fonti via mare e una ripresa significativa del carbone (il peggiore). Anche i recenti accordi del governo italiano con il Nord Africa per fare dell’Italia l’“hub del gas” europeo attraverso il Mediterraneo vanno in questa direzione.

C’è dunque preoccupazione sulla effettiva capacità del modello corrente di transizione di risolvere la crisi climatica ed ecologica in tempo utile, con i prossimi anni che saranno fondamentali per capirlo definitivamente. Che fare? Il primo passo è proprio quello di evitare la rimozione del problema immaginando un mondo che non c’è più, di accordi internazionali progressivamente migliori e più rispettati.

Ovviamente occorre continuare a cercare di farli; ma in proposito anche i risultati per il capitolo “emissioni” della recente Cop27 (Conference of Parts delle Nazioni Unite) di Sharm el Sheik sono stati giudicati più che deludenti dai rappresentanti dell’Europa. Non possiamo sicuramente tirare i remi in barca sul contenimento delle emissioni climalteranti: se disinvestissimo sulla mitigazione i disastri climatici nei prossimi anni verrebbero ulteriormente aggravati.

Ma il guaio è che un peggioramento dei disastri climatici nei prossimi anni è purtroppo da mettere in conto e il loro tamponamento preventivo (riassunto nella parola-chiave adattamento) diventa adesso l’urgenza principale. Se il prossimo decennio sarà decisivo per la transizione climatica ed ecologica, non ci può essere tempo per alibi o disperazione. Vogliamo verificare seriamente se i riscontri in proposito nell’agenda del governo siano sufficienti? Ad esempio se il nuovo Pnacc (Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici, tra l’altro in consultazione) abbia un minimo di concretezza?

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