di Nicola Quondamatteo*
Giovedì 2 febbraio il Parlamento europeo, in sessione plenaria, ha votato a larga maggioranza la sua posizione sulla nuova legislazione comunitaria in merito ai diritti dei lavoratori delle piattaforme digitali.
I tassisti di Uber, i fattorini del cibo a domicilio di Deliveroo, le lavoratrici delle pulizie di Helping. Sono questi alcuni dei volti degli occupati della gig economy, potenzialmente interessati dal processo legislativo dell’Unione Europea. Il numero delle piattaforme operanti nei 27 paesi membri – si legge nel testo approvato a Bruxelles – è passato da 463 nel 2016 a 516 nel 2021. Il giro di affari, nel frattempo, è quintuplicato. La stima per il 2016 era di 3,4 miliardi di euro, quella del 2020 di circa 14 miliardi. Si tratta di settori particolarmente sensibili alle fluttuazioni del ciclo economico.
Pensiamo alla crisi generata dalla pandemia: il comparto del servizio taxi ha conosciuto una riduzione, quello della consegna dei pasti un’esplosione (che ha tenuto in piedi la ristorazione, particolarmente segnata dalle chiusure per limitare il contagio). Oscillazioni che hanno aperto un ulteriore spazio di riflessione sulla mancanza di tutele e di protezione sociale per una forza lavoro cui non viene riconosciuto il corretto inquadramento contrattuale. L’economia delle piattaforme si fonda sul falso lavoro autonomo e quindi sul non riconoscimento dei diritti che caratterizzano la sfera del lavoro subordinato.
La posizione del Parlamento Europeo è ambiziosa: protegge l’impiego genuinamente autonomo, ma è chiara e netta su quel lavoro che autonomo non è. La proposta si basa sulla presunzione dello status occupazionale salariato. Dovranno essere le piattaforme a dimostrare che così non è. Oggi l’onere della prova è in capo ai lavoratori, che sono tenuti ad andare dal giudice del lavoro per vedere riconosciuti i propri diritti (paga oraria secondo i minimi contrattuali, tredicesima, quattordicesima dove prevista dal Ccnl, ferie, malattia, contribuzione sociale piena, permessi, Tfr ecc.). La magistratura del lavoro in Italia (da Palermo sino al più recente caso di Torino) e in Europa ha generalmente stabilito che parliamo di impiego dipendente a tutti gli effetti, etero-diretto ed etero-organizzato dalle aziende digitali. Il carattere internazionale del contenzioso giudiziario fornisce l’idea di una “giurisprudenzializzazione” sovranazionale della conflittualità: sovranazionali le imprese che operano su scala globale, sovranazionale la sfida ai diritti del lavoro, sovranazionale la lotta per il riconoscimento e la dignità.
Sovranazionale sarà in prima battuta anche la regolazione? Il voto di giovedì a Bruxelles indica una strada: le istituzioni europee, spesso percepite come distanti dai cittadini comuni, hanno l’occasione di essere all’avanguardia nella tutela di un sistema di garanzie minacciato dalla sfida dell’uberizzazione. Manca ancora il semaforo verde del Consiglio Europeo, dove la partita non è affatto semplice. La scorsa presidenza di turno, quella della Repubblica Ceca, ha provato ad annacquare il processo legislativo – di sponda con il Presidente francese Macron. Il tentativo non è andato a buon fine per l’opposizione di un gruppo di governi guidato dalla Spagna – che su un riformismo pro-labour ha costruito la propria linea politica (contrasto al precariato, aumento del salario minimo, legge riders che per prima ha sfidato la falsa autonomia veicolata dalle piattaforme). Dopo il semestre svedese in corso, sarà proprio la Spagna ad assumere la presidenza. Il governo di Madrid, viste anche le imminenti elezioni nazionali, farà verosimilmente il massimo sforzo per portare a casa il risultato.
Il governo italiano? Al momento si segnala una vistosa ambiguità. Ha votato in Consiglio Europeo con la Repubblica Ceca per annacquare la direttiva, mentre gli europarlamentari di Fdi e Lega hanno approvato la proposta che la relatrice socialista Elisabetta Gualmini ha definito “uno step storico” per la tutela del lavoro nelle piattaforme digitali. Questo sul fronte istituzionale. “In basso” invece è ancora in vigore, nel mondo dei riders, un accordo tra Ugl (sindacato di destra vicino ai partiti di governo, da dove proviene il sottosegretario Durigon) e Assodelivery (associazione datoriale che riunisce Deliveroo, Glovo e Uber Eats). Un contratto considerato pirata dai sindacati maggiori a causa della scarsa rappresentatività di Ugl, che continua a inquadrare i fattorini come lavoratori autonomi pagati a cottimo. Contratto che sarebbe incompatibile con lo spirito laburista del testo approvato ieri a Bruxelles e che ha il favore di un’altra piattaforma del delivery – Just Eat Takeaway.com – che ha assunto come dipendenti i propri lavoratori dopo un accordo con i sindacati del settore logistico. Just Eat Takeaway ha dichiarato in dicembre il proprio supporto al processo legislativo Ue dalle colonne del Financial Times.
Non sono mancati, in questa delicata partita, tentativi di lobbying di Uber e soci – su cui questo giornale ha scritto a lungo nei mesi scorsi (soprattutto dopo l’esplosione dello scandalo degli Uber Files). Allo stesso tempo il percorso è stato seguito con attenzione anche da associazioni sindacali di un contesto come quello britannico, che dopo la Brexit non è più sottoposto alla legislazione comunitaria. Un’ulteriore riprova dell’estrema importanza di quanto succede a Bruxelles per il futuro della regolazione del lavoro.
* Dottorando in Sociologia, Scuola Normale Superiore