Quando vi capiterà di vedere The Son al cinema ricordatevi del nostro suggerimento: non scappate durante la prima mezz’ora. Il francese Florian Zeller è un cineasta, e sceneggiatore (oltreché scrittore), diesel. Ha bisogno di far sedimentare l’ovvio, il quotidiano, il dèjà vu. The Father, con Anthony Hopkins in spolvero come non capitava da anni (Oscar 2020 per lui ndr), insegna. Anche se lì, con il protagonista affetto da Alzheimer, la questione percettivo-visiva sfuggente e vaga per lo spettatore era qualcosa di un po’ più semplice (non semplificato) da registrare. Con The Son ecco ancora la storiella padre (madre) e figlio adolescente in crisi esistenziale. Meglio, anzi peggio: pesantemente depresso. Peter (Hugh Jackman, forse prima volta al Lido?), super consulente aziendale e politico con ufficio a vetri su skyline newyorchese si è separato da un paio d’anni dalla moglie (Laura Dern) e ha appena avuto un figlio dalla nuova fidanzata (Vanessa Kirby, presenza di un erotismo e di una sensualità perennemente impressionante).
Il 17enne Nicholas (Zen McGrath) viene così sballottato, nel giro di pochi mesi, dalla casa altoborghese di mamma (ne sentiamo solo parlare) ad un’altra identica in piena ricchissima New York (lo spazio dove sostanzialmente la storia si compie). Solo che Nicholas marina la scuola, si chiude in camera, si isola dal resto del mondo: lui, magrolino, tutto bianchiccio di pelle, riccioluto come un pargolo e occhietti azzurri fragili fragili, piange come una fontana, si sente un dolore dentro all’anima impossibile da sanare. Dapprima però sulla spinta decisa ma senza eccessi del padre, pronto a rinunciare anche ad un grosso incarico pur di stare vicino al figlio, e grazie ad un patto di scarsa belligeranza con la compagna di babbo, Nicholas sembra rientrare in gioco tra normalità e depressione superata, fino a quando un (doppio) tragico gesto catapulterà l’intera famiglia nel dramma. The son è una sorta di letterale kammerspiel, non certo privo di dialoghi, ma proprio tutto incentrato e incastonato su una spazialità significante che fa il paio, appunto, con la casa di Hopkins protagonista in The Father. Un girovagare tra un palco centrale – il salotto – e stanze singole che fanno come da quinta, limitatamente fuori vista, in cui i protagonisti a turno escono come di scena, per poi apparire un attimo dopo. Inoltre la città, lo sfarzo asettico e altisonante degli esterni in profondità di campo, si sbirciano oltre i vetri quasi isolanti della casa di Peter e Beth. Lo sviluppo drammaturgico si arrampica, si staglia, si ingrossa e si riconosce proprio perché rimane dentro l’appartamento in questione, allargandosi fisicamente pochino oltre quelle quattro mura se non per qualche interno scuola, ospedale psichiatrico, ristorante.
È chiaro che il dolore va consumato, compresso e scarnificante, solo lì dentro, dove le linee di sangue familiari e il rapporto delicatissimo genitori-figli appaiono più profondi e nitidi. Affidato ad una recitazione straordinariamente sobria di Jackman (sembra come lessato e intontito ma nel saldo finale è posa espressiva che si rivela essenziale) e ad uno “chalamettare” (da Timothée Chalamet) del giovane McGrath, capace con classe e pervicacia di spaziare dall’afflitto all’isterico, The son è cinema senza liturgie intellettualistiche teso verso le viscere, perfino un filo spettacolarmente ricattatorio quando propone una “scelta di Sophie” tra cosiddetta programmatica scientificità psichiatrica e sentito innocente amore. Ed è lì, verso il fondo, quando Zeller&co. sembrano come interpellare lo spettatore chiedendogli “e tu con tuo figlio cosa faresti?” o “quale responsabilità ti prenderesti?”; ecco proprio in quell’istante ti volti indietro a scorrere due ore di film e pensi di non aver affatto perduto tempo invano. Incredibile cameo risicatissimo di Hopkins nella parte di un ricco e cinico padre, nonno di Nicholas, assolutamente spiazzante e contundente, sorta di avvisaglia che The son da lì in avanti sarà qualcosa di tosto e difficilmente dimenticabile.