Verso la secessione dei ricchi?: questo il titolo di un notissimo saggio del prof. Gianfranco Viesti che – nel 2019 – apriva strada e prospettive interpretative a chi avesse avuto volontà e costanza di studiare le complesse conseguenze della applicazione della Riforma del Titolo V, varata nel lontano 2001 ma non ancora concretizzata relativamente a quanto dispone l’art. 116, c. 3., ovvero che “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata”.
Proprio su questa disposizione interviene il ddl Calderoli, indicando i passaggi per attuare le intese tra Regioni e Governo. Quel titolo – Verso la secessione dei ricchi?, cui possiamo (in ragione di una risposta radicalmente affermativa confermata dai fatti) espungere il punto di domanda – può essere inteso in due modi: verso la secessione del Nord rispetto al Sud; verso la secessione delle persone più abbienti, ovunque essi risiedano, rispetto ai poveri. Questa seconda lettura risulta allo stato attuale la più convincente.
E’ innegabile che il Sud del Paese – qualora il progetto eversivo della Lega e del Pd dovesse andare avanti – patirebbe un ulteriore, forse esiziale, affossamento delle sue già precarie condizioni e un ampliamento delle disuguaglianze delle proprie cittadine e cittadini rispetto a quelli delle regioni del Nord. Il problema è gravissimo e minaccia di alimentare una nuova questione meridionale.
Pensiamo però anche a quanto accadrebbe alle fasce più deboli della popolazione, indipendentemente dal proprio certificato di residenza. La rottura del contratto collettivo nazionale, affiancato – nella migliore delle ipotesi – a contratti regionali, colpirebbe tutti/e i/le lavoratori/trici, privandoli di conquiste e tutele realizzate in decenni di lotte. La ulteriore privatizzazione del pubblico (nella sanità, nell’istruzione, ecc) allargherebbe il numero di quanti già oggi scontano – ancora, ovunque risiedano – le conseguenze della odierna potestà legislativa concorrente Stato/regione in quelle materie (e nell’esigibilità dei relativi diritti universali) e la conseguente privatizzazione che, se l’autonomia differenziata diventasse realtà, passerebbero alla potestà legislativa esclusiva della regione. Questa la prospettiva: i poveri sempre più poveri, in qualsiasi regione risiedano; e, pertanto, il Sud (la parte più povera della Penisola) definitivamente affossato.
Queste dovrebbero essere una parte delle preoccupazioni, riflessioni, ragioni profonde per dire un no senza se e senza ma; che, invece, ancora stenta ad essere pronunciato esplicitamente da forze politiche, sindacali, associazioni che – nel gioco delle alleanze, degli ammiccamenti, delle divisioni interne – evitano di emettere quei semplici fonemi in modo unitario e scevro da ambiguità: un no in difesa dei valori costituzionali – uguaglianza, solidarietà, autonomia – di cui peraltro alcuni di quei soggetti si (auto)proclamano custodi.
Nella giornata di giovedì, quando il CdM ha approvato il testo (solo leggermente rivisitato, per evitare di enfatizzare la muscolarità del ministro e la remissività del presidente (sic!) del consiglio dei ministri) del ddl Calderoli, sono accadute alcune cose sconcertanti. La prima è che Fratelli d’Italia – la forza politica che, a partire dal suo stesso nome, basa la propria esistenza e il proprio programma su precise rivendicazioni di carattere nazionalistico – ha abbassato la testa e, pur di mantenere integri gli equilibri del governo e procedere con tutti gli alleati verso il proprio progetto di presidenzialismo, ha consentito al passaggio del ddl Calderoli in consiglio dei ministri, tenendo fede al patto scellerato concordato in campagna elettorale. Una “carezza” alla Lega in grande difficoltà, nonostante nel 2014 la stessa Meloni sia stata firmataria di un progetto di legge AC1953, che proponeva l’abolizione dell’art 116, di cui si diceva. Questa è coerenza!
La seconda è che il ministro Calderoli ha portato avanti una questione delicatissima – che riguarda l’attribuzione della potestà legislativa esclusiva alle regioni su ben 23 materie, e quindi la violazione palese del principio di uguaglianza tra cittadine e cittadini di questo Paese sulla base del certificato di residenza, e quindi l’aumento esponenziale delle diseguaglianze – in tempi rapidissimi, per tirare la volata al proprio partito – la Lega – alle imminenti elezioni regionali della Lombardia (una delle 3 regioni, insieme a Veneto ed Emilia Romagna, che hanno già stipulato pre-intese per accedere alla potestà legislativa esclusiva), rafforzando peraltro la posizione di Fontana in Lombardia e Zaia in Veneto.
La terza, altrettanto clamorosa, sono le dichiarazione del presidente della regione Emilia Romagna (ER), Stefano Bonaccini. Il quale, dopo aver per 4 anni richiesto a gran voce (unendosi al coro di Zaia e Fontana) autonomia su 16 materie per la propria regione; dopo aver concordato intese sostanzialmente sovrapponibili insieme alle regioni leghiste; dopo aver rifiutato di esaminare in commissione consiliare ER la petizione popolare firmata da 3500 cittadine/i, con la quale si chiedeva il ritiro della pre-intesa; essendo quindi ancora oggi il firmatario di una delle TRE preintese già concordate (tutte fondate sulla medesima “filosofia”); pur rivendicando tuttora la validità di quelle preintese; ebbene, dopo tutto ciò, Bonaccini si scopre improvvisamente contrario, dichiarando, dopo l’approvazione del ddl Calderoli in Consiglio dei Ministri: “Irricevibile. Pronti alla mobilitazione”. E con lui, la sua vice in Regione ER, Elly Schlein, che parla di “bloccare in Parlamento sia nelle piazze il ddl sull’autonomia differenziata che spacca il Paese”. Un cambiamento di posizione certamente non estraneo al percorso politico che stanno entrambi perseguendo: la conquista della segreteria del Pd. E al tentativo di non spiacere a quella (sparuta) parte del Pd che comincia a dichiarare la propria contrarietà, ma soprattutto al Sud che, come si diceva, sarà particolarmente colpito dagli effetti della de-forma costituzionale del Titolo V.
Ecco le motivazioni – tutte esclusivamente elettoralistiche e politiciste – per cui il governo e la maggiore forza di “opposizione” uscite dalle urne il 25 settembre stanno svendendo diritti universali, condizioni di vita delle donne e uomini di questo Paese, democrazia e unità della Repubblica. Se l’indignazione di Bonaccini e Schlein fosse davvero genuina, ci sarebbe una cosa molto semplice da fare: revocare l’intesa già sancita con il governo Gentiloni. Non è tardi per cambiare idea, persino per chiedere scusa per le responsabilità enormi che il Pd ha, dalla riforma del Titolo V ad oggi, su tutta la partita dell’autonomia differenziata.
Cittadine e cittadini, già tenuti all’oscuro da anni di trattative fatte nelle stanze chiuse e in parte ancora ignari/e di quelle che saranno le conseguenze del regionalismo asimmetrico, sono stanchi di chiacchiere, di colpi di teatro, di manipolazioni, di ambiguità. O il presidente della Regione Emilia-Romagna che ora da principale candidato segretario nazionale del Pd sembra finalmente pensare non solo egoisticamente ai suoi cittadini elettori ma ai cittadini elettori di tutto il Paese pensa che la versione “edulcorata” dell’autonomia solidale-soft-buona (ovvero quella scritta nelle pre-intese dell’Emilia Romagna) possa essere considerata attendibile ed accettabile per tutti/e?