di Savino Balzano
L’idea di Volodymyr Zelensky al Festival, al netto della scelta tra filmato da proiettare e testo da leggere, mi provoca un profondo imbarazzo, un imbarazzo a 360 gradi. La prima fetta di imbarazzo è per così dire altruistica: provo disagio per lo stesso Zelensky – strumentalizzato dal becero livello del nostro giornalismo – esposto come un trofeo sul palco dell’Ariston. A mio avviso svela la sua reale natura, la quale rappresenta quanto di più distante possa esservi dallo spessore di un eroe statista. Sì, insomma, ve lo immaginate Winston Churchill – a cui è stato paragonato ad esempio dalla Cnn e dal Financial Times – che col sigaro in bocca si fa tirare per la giacchetta da Bruno Vespa e Amadeus fino a Sanremo?
È di lunedì la notizia della sostituzione del video con il testo: una gestione incerta e imbarazzante che non fa altro che evidenziare la fragilità di questa scelta tutta nostrana. Fino alla mattina di lunedì si scriveva candidamente che il contenuto del suo messaggio sarebbe stato registrato e visionato e la sua divulgazione valutata prima della messa in onda. Oltre al danno la beffa: non solo ridicolizzato, ma persino giudicato preventivamente da qualcuno a Viale Mazzini.
Una roba che definire grottesca davvero appare riduttivo: non sia mai che Zelensky possa risultare meno realista del nostro di interventismo. Sì perché volendo assumere il punto di vista di Zelensky – quello di un uomo che si autorappresenta come strenuo difensore della civiltà occidentale e dei valori democratici – appare davvero inconcepibile l’idea di accettare di esporsi per parlare della tragedia del proprio popolo durante un evento mondano e, soprattutto, quella di sottoporsi al vaglio censorio del (nostro) servizio pubblico. Insomma, Kiev regge all’assalto di Mosca, ma nulla può contro la Radiotelevisione italiana. Eppure di coerente a mio avviso c’è proprio la censura preventiva (come qualcuno l’ha definita) al discorso di Zelensky – che sarebbe lecito immaginare estesa anche al testo da leggere in diretta – in quanto questa iniziativa ben si sarebbe collocata tra quelle del ministero della Cultura popolare di fascistissima memoria e ben si colloca di conseguenza nel clima che da anni viviamo in Italia.
E veniamo al secondo motivo di imbarazzo: meno altruista del primo. Alcuni hanno fatto notare che non è di certo la prima volta che la politica calca il palco di Sanremo e siamo al solito fumo negli occhi. Una cosa è infatti invitare qualche (opinabile) attivista – imponendo come al solito la medesima visione perbenista di una certa (finta) sinistra italiana – qualche politico in pensione o qualche artista osannato dalla nomenclatura (tipo Roberto Benigni capace di conciliare la presa in braccio di Enrico Berlinguer con lo schierarsi con forza a favore di Matteo Renzi in occasione del referendum costituzionale del 2016 prevedendo la fine del mondo in caso di vittoria del No), tutt’altro convocare il capo di un paese in guerra che continua a chiedere armi al mondo, da ultimo i caccia (prima ancora di aver ricevuto i carri armati) e – prima o poi – direi l’atomica.
Soprattutto credo che significativo (e sconveniente a dir poco) sia invocarne il contributo nel ben mezzo di una spaccatura profonda in seno all’opinione pubblica italiana, la quale di certo non è a favore di questa assurda guerra. Ormai è evidente infatti come la maggioranza degli italiani non sia sostenitrice della strategia adottata, la quale esprime palesemente il servilismo italiano ed europeo dinanzi agli interessi americani. Questo invito – di fatto – impone violentemente un punto di vista: quello ucraino (meglio quello della Nato che la povera Ucraina strumentalizza letteralmente a morte), il quale rinunciando ad ogni forma di complessità, ben al di sotto della soglia minima della decenza, non ragiona nemmeno per un istante “sull’abbaiare della Nato alla porta della Russia”, per citare una frase di Francesco.
Questa iniziativa, peraltro, è sorretta e corroborata dallo stesso mondo che per mesi ci ha raccontato di una Russia in ginocchio, sul punto di capitolare dinanzi all’imprevista resistenza ucraina, di un Vladimir Putin alla canna del gas e in fin di vita un giorno sì e l’altro pure, di un Putin persino già morto a giorni alterni. Ovviamente a nessuno viene in mente di chiedere conto di tutte le fesserie propagate per ore e ore di maratone televisive.
Ciò imbarazza profondamente perché l’Italia tutto sommato meriterebbe di meglio e di più una riflessione seria, profonda, addolorata circa quanto sta accadendo e, soprattutto, in merito all’enorme rischio che tutti stiamo correndo, a passi lunghi e ben distesi verso il baratro di un conflitto mondiale. Una becera strumentalizzazione che nulla di genuino esprime ignorando – infatti – le urla di dolore che si sollevano dalle terre dello Yemen o della Palestina proponendo il solito e stucchevole perbenismo preconfezionato.
Il dibattito nel servizio pubblico, del quale molti di noi realizzano con rabbia l’esistenza solo leggendo la bolletta della luce, dovrebbe essere animato dalla volontà autenticamente democratica di rappresentare, raccontare e comprendere il mondo nell’interesse di tutti. Ad esempio: se proprio in quelle serate spensierate il tema della guerra deve essere rievocato – e non ci vedo nessun tipo di illegittimità – sarebbe stato certamente meglio farlo imbastendo una riflessione costruttiva su orizzonti di pace e pluralismo democratico internazionale. Così non è perché ancora una volta – animato dalla saccenteria di chi considera il popolo come un’informe e inconsapevole massa berciante – indotto da uno scollamento profondissimo rispetto al sentimento vero della gente, un ristretto gruppo di potenti pensa di poter modellare lo spirito del popolo a propria (sgradevole) immagine e somiglianza.