“È stata un’aggressione mostruosa”. Un paio di occhiali da vista con una lente oscurata per coprire l’occhio destro ferito e un’espressione tesa e addolorata. Salman Rushdie commenta per la prima volta la sua condizione fisica e psicologica dopo l’attentato subito lo scorso 12 agosto a Chautauqua, nello stato di New York. “La foto sul New Yorker è drammatica e potente ma, più prosaicamente, descrive come sono oggi”. È con un pizzico di ironia che Rushdie, 75 anni, 11 romanzi alle spalle, tra cui i Versi satanici che gli è valsa una fatwa dall’allora ayatollah iraniano Khomeini, risponde alle domande di un giornalista rievocando il terribile episodio che l’ha quasi visto sprofondare al creatore. L’intervista, peraltro, precede l’uscita negli Stati Uniti (e in Italia) dell’ultimo romanzo Victory city (La città della vittoria, Mondadori), una saga di amore, avventura e mito, nell’India del XIV secolo. Rushdie, che nell’aggressione ha perso un occhio e l’uso di una mano, rivela che ha avuto grosse difficoltà nel riprendere a scrivere, definendo questi ultimi mesi come affetti da disturbo di stress post-traumatico.
“Mi siedo per scrivere e non succede nulla. Scrivo, ma è un misto di vuoto e spazzatura, roba che scrivo e che cancello il giorno dopo”, ha spiegato. “Sono stato fortunato, il mio principale sentimento è la gratitudine. Sono stato meglio ma, considerando quello che è successo, non sto poi così male. Le ferite più gravi sono guarite. Ho sensibilità nel pollice e nell’indice e nella metà inferiore del palmo”. Rushdie fatica ancora a digitare al computer e ancor di più a scrivere con la mano. “Ci sono parti del mio corpo che hanno bisogno di continui controlli. È stata un’aggressione mostruosa”, ha sottolineato lo scrittore. L’intervistatore David Remnick ha fatto notare a Rushdie che probabilmente la scelta di trasferirsi a New York nel 2000 dopo molti anni di clandestinità per paura che a fatwa islamica provocasse reazioni assassine, come del resto è accaduto, non è stata molto opportuna. “Certo, questa domanda (era meglio non mostrarsi allo scoperto ndr) me la sono posta e non conosco la risposta. (…) Ho sempre cercato di non assumere il ruolo di vittima e non voglio che le persone che leggono il libro pensino questo. Bensì voglio che siano catturati dal racconto, che si lascino trasportare”. Infine Rushdie chiosa l’intervista con una sorta di ironico paradosso. Infatti, per anni non è mai stata una figura pubblica e letteraria amatissima, magari è figurato un po’ scomodo e rognoso. “Alla gente non piacevo. Perché sarei dovuto morire. Ora che sono quasi morto, tutti mi amano“. La città della vittoria (Mondadori) è già in vendita in tutte le librerie italiane.
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