L’attenzione intermittente sulla guerra in Ucraina si è concentrata per poco più di 48 ore sul sì a lungo ponderato – frutto di una trattativa non breve con gli Usa e di un pressing della Ue – con cui il “cauto” Olaf Scholz ha alla fine formalizzato l’invio dei tanto agognati Leopard 2 a Kiev, 14 per la precisione. Poco importa se, degli oltre 3300 carri armati moderni dislocati in Europa, ne arriveranno a Kiev in tempi medi circa un’ottantina. Analogamente, ma con tempistiche alquanto più rallentate e molte problematiche di addestramento e manutenzione, gli Usa hanno annunciato l’arrivo tra qualche mese di 31 Abrams sia per sbloccare nel breve periodo l’invio dei tank tedeschi, sia per confermare nel lungo periodo l’aiuto militare americano, dopo il sorpasso dei Repubblicani al Congresso e la pressione dei trumpiani per disarmare Volodymyr Zelensky.
I mezzi pesanti che Zelensky ha cercato di ottenere da subito e che gli sono valsi dal fronte pacifista l’accusa di bulimia, ingordigia e ingiustificata furia bellicista possono fare la differenza in vista dell’annunciata offensiva subentrata “all’operazione militare speciale” con inizio alquanto imminente, ma il fattore tempo è tutt’altro che irrilevante. Già lo scorso marzo, a un mese dall’inizio della guerra e in seguito all’intervento di Zelensky alla Knesset, Abraham Yehoshua – uno difficile da liquidare come guerrafondaio, servo della Nato e/o filonazista – aveva detto chiaro e tondo che le sanzioni e le armi “difensive” non bastano: “Dobbiamo mostrare a Vladimir Putin i muscoli, far vedere sul terreno l’intenzione di fare di più e inviare i carrarmati in Ucraina. Far vedere che l’Occidente è lì. Solo così cambieremo la dinamica del conflitto”. Parole inequivocabili e lungimiranti, oggi più che mai attuali, e che possono essere un sintetico testamento politico a pochi mesi dalla sua morte.
In questo febbraio del 2023 – che un anno fa ci sembrava lontanissimo e che potevamo collocare in un tempo se non di “pace ritrovata” almeno prossimo alla definizione del conflitto – ci ritroviamo alla casella di partenza, se non peggio. Basta sostituire allo scenario della paurosa kilometrica teoria dei carri armati russi che dovevano prendere Kiev e spazzare via il governo di “nazisti e drogati” per rimpiazzarlo con “le persone perbene” di Mosca quello odierno: cioè la prospettiva della prossima grande offensiva; forte, oltre che dei 340mila coscritti arruolati con “la mobilitazione parziale”, di altri probabili 500mila in vista di una formidabile avanzata per rompere il fronte della resistenza ucraina nel Donbass, con un obiettivo ulteriore non definito e al momento non prevedibile che potrebbe ancora includere la capitale.
Secondo una pluralità di fonti – non solo ucraine – ci sarebbe già un trasferimento attivo di truppe russe nella regione sul fronte orientale in vista della “massima escalation”, oltre al raggruppamento di mezzi e alle esercitazioni. Mosca starebbe espellendo anche i residenti a ridosso della linea di combattimento per evitare che possano far filtrare informazioni su movimenti militari. Intanto proseguono i bombardamenti russi su Kharkiv dove è stata gravemente colpita anche l’università, dopo quelli su Izyum e Kherson con morti e feriti, mentre Bakhmut – ormai una seconda Mariupol – è sempre più isolata. E il capo dei mercenari della Wagner Yevgeny Prigozhin, signore della guerra e del terrore nonché motore “dell’operazione speciale” di annientamento in Donbass, ha avvertito Mosca che a Bakmut “le forze armate ucraine non si stanno ritirando. Stanno combattendo fino all’ultimo fosso”.
In questa prospettiva condivisa da fonti militari sul terreno e dagli analisti, è stato annunciato l’invio dagli Usa di un nuovo pacchetto di armi all’Ucraina contenente anche missili di precisione a lungo raggio, da tempo invocati da Zelensky come necessari per continuare a difendere l’integrità del territorio ucraino e creare le condizioni per un negoziato che non sia punitivo per l’aggredito. E il ministro della Difesa ucraino ha riconfermato l’impegno a non utilizzare gli annunciati missili da 150 km di gittata oltre i confini, ma solo per colpire le unità russe nel territorio occupato. Rassicurazioni che non mettono certamente gli ucraini al riparo dalle ire dei pacifisti – almeno quelli italiani – del tutto incuranti dell’evidenza, sottolineata anche da Dario Fabbri, che inviare i carri armati in vista di un’offensiva senza contestualmente fornire un’adeguata difesa antiaerea è privo di senso, perché anche i potenti e sofisticati Leopard 2 sarebbero “bruciati tutti” dall’alto in un baleno – come aveva a caldo minacciato Putin.
In una situazione di sanguinoso stallo e di guerra di attrito – in cui sul decisivo fronte orientale Kiev è per sua ammissione in difficoltà e la Russia non riesce, nonostante la formidabile potenza distruttiva, ad avanzare sensibilmente – è purtroppo evidente l’impossibilità di un negoziato imminente o di una tregua, che presuppongono la disponibilità a trattare. E come evidenziano storici, politologi, analisti militari di diversa provenienza e orientamento, per avere un forte incentivo a trattare entrambe le parti hanno bisogno di un successo e di potersi sedere a un tavolo da una posizione di vantaggio. “L’offensiva” molto prossima o già anticipata, come spiega anche il politologo e analista indipendente Nikolay Petrov a ilfattoquotidiano.it, “dal punto di vista di entrambe le parti dovrebbe rafforzare le loro posizioni negoziali” e aggiunge: “a lungo termine la Russia perderà inevitabilmente, come era già chiaro dal 24 febbraio. Per un altro anno Mosca può mantenere la pressione che sta esercitando sull’Ucraina e sull’Occidente e poi inizierà a sgretolarsi”.
Certo, il vantaggio straordinario di Putin è quello di non dover rispondere delle sue scelleratezze, dei suoi crimini, della corruzione che divora l’ossatura dello stato, delle motivazioni di una guerra insensata e rovinosa ai cittadini, almeno per ora. Fuori da ogni ipocrisia che purtroppo si ammanta troppo spesso del nobile richiamo alla pace, nel cui nome siamo riusciti anche a inscenare l’avvilente scandalo per il videomessaggio di Zelensky a Sanremo. E’ fin troppo evidente che a questo punto dobbiamo chiederci e dire onestamente se vogliamo che al tanto vagheggiato “tavolo della pace” sieda in una posizione di vantaggio Putin o Zelensky. Magari avendo anche presente il dettaglio che “le condizioni per la pace ha diritto a metterle sul tavolo il paese invaso” (Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia).
Alle polemiche pseudo-pacifiste e allo sdegno corale per i due minuti di Zelensky in video a Sanremo che hanno arrecato turbamento anche a Pier Silvio Berlusconi, ha risposto in modo perfetto Massimo Cacciari: “Ci sono passati tutti, da Michail Gorbaciov alla regina di Giordania ai sindacalisti dell’Italsider, ma il presidente di un paese massacrato no?”. Quanto all’allarme nucleare – rilanciato spesso con toni che amplificano la propaganda del Cremlino: “I cosiddetti leader politici pacifisti, da Matteo Salvini a Giuseppe Conte, non sono mai riusciti a spiegarci come, secondo loro, si dovrebbe raggiungere la tregua e il cessate il fuoco. Riempirsi la bocca della parola pace è un velleitario quanto vacuo esercizio fine a se stesso, se non spieghi in che modo politicamente la si può ottenere”.
Un sintetico promemoria per intellettuali, politici e affini, che con la bava alla bocca contro il “burattino arrogante”, “il cinico attoruncolo”, “il problema da rimuovere”, “la vergogna da cancellare” hanno sottoscritto un appello per boicottare l’intervento in videomessaggio del leader ucraino al festival di Sanremo e hanno annunciato una “contromanifestazione”. Chissà se alla fine “la presenza di Zelensky con un testo letto da Amadeus” e non in video – come era stato ampiamente preannunciato – potrà placare “turbati” e indignati, o se per opposti motivi scontenterà semplicemente tutti.