Lo studio dell'Alfred Wegener Institut: un terzo di 23mila detriti arrivati su 14 spiagge è di origine russa. Ma quote significative arrivano anche da Norvegia e Germania. Non mancano Paesi anche più lontani
I detriti di plastica sono oramai onnipresenti negli ecosistemi del pianeta e hanno invaso persino luoghi difficilmente raggiungibili dagli esseri umani, come i fondali oceanici, l’atmosfera e alcune delle regioni più remote della Terra. Ma da dove arrivano questi inquinanti e quali sono i Paesi che contribuiscono maggiormente all’inquinamento da plastica? Per cercare di rispondere a questi interrogativi, un gruppo di scienziati dell’Alfred Wegener Institute, Helmholtz Center for Polar and Marine Research, guidato da Melanie Bergmann, Anna Natalie Meyer e Birgit Lutz, ha condotto un’indagine sui frammenti prelevati nelle spiagge polari. I risultati, descritti sulla rivista Frontiers in Marine Science, evidenziano il ruolo inquinante dei diversi Paesi che rilasciano detriti di plastica in acqua.
Il gruppo di ricerca ha progettato uno studio di Citizen Science, chiedendo ai natanti che dal 2016 al 2021 hanno viaggiato in barca nelle acque artiche di recuperare i frammenti di plastica che avevano raggiunto le coste delle isole Svalbard, nel Mare Glaciale Artico. In totale i ricercatori hanno ricevuto 23mila detriti provenienti da 14 spiagge nell’arcipelago di Spitsbergen. Gli scienziati hanno quindi determinato la composizione e l’origine dei campioni, la maggior parte dei quali (87 per cento) era costituito da rifiuti della pesca, come reti, corde e grandi contenitori. Il team ha quantificato la massa e l’abbondanza di detriti per comprendere i livelli di inquinamento e la composizione delle spiagge artiche. I dati sono stati confrontati con quelli del fondale e della superficie marina raccolti da analisi precedenti per delineare potenziali pozzi di detriti marini.
Complessivamente, l’uno per cento dei residui recava etichette leggibili che permettevano di stabilirne accuratamente la provenienza. Di questi, il 32 per cento aveva origini russe, il 16 per cento era stato prodotto in Norvegia e l’otto per cento derivava dalla Germania. Solo il cinque per cento dei frammenti era poi associato a Paesi più lontani, come Stati Uniti, Cina, Corea e Brasile. Gli oggetti sono stati pesati, fotografati ed esaminati attraverso lo strumento Google Lens per tradurre gli idiomi leggibili. “Abbiamo anche valutato la possibilità che gli elementi potessero essere associati a determinati settori – commenta Bergmann – questa conoscenza è importante per sviluppare soluzioni mirate per ridurre l’inquinamento da plastica in Artico”.
“Sono urgentemente necessarie misure globali per la regolamentazione dello smaltimento della plastica – sottolineano gli autori – con migliori misure di gestione dei rifiuti, allo scopo di ridurre la quantità di sostanze inquinanti che raggiungono gli ambienti più vulnerabili, come la regione artica. Si stima infatti che circa l’11 per cento dei prodotti di plastica raggiunga i corsi d’acqua, si tratta di un valore eccessivamente elevato, che compromette il benessere degli ecosistemi e degli habitat, pesando sugli hotspot di biodiversità e provocando conseguenze a lungo termine non ancora chiare”.