Il finale della storia è difficile da comprendere. Esattamente come tutto il resto della faccenda. Perché dopo un ammutinamento durato settimane, adesso Nicolò Zaniolo ha deciso di sfilarsi la maglia giallorossa della Roma per vestire quella del Galatasaray. Stessi colori. Ma tinte meno brillanti. Il ragazzo che voleva ritagliarsi un posto al sole nel calcio italiano proverà a ripartire dall’estrema periferia del football europeo. Un paradosso. O forse no. Perché l’ultimo mese di Zaniolo sembra uscito da un perfetto manuale di autodistruzione. Tutto è precipitato all’improvviso, quando il giocatore ha chiesto di essere escluso dalla lista dei convocati per la gara contro lo Spezia. È allora che le cose intorno al numero 22 giallorosso hanno iniziato a girare sempre più velocemente. L’offerta timida del Tottenham, il vorrei ma non posso del Milan, il no all’opulenta proposta del Bournemouth e poi il ripensamento notturno, con tanto di telefonata per annunciare al club inglese il “contrordine compagni” alla Giovannino Guareschi, quando era ormai troppo tardi. E poi ancora l’effimero flirt con il Leeds, la lettera inviata all’Ansa in cui Zaniolo si diceva pronto a tendere la mano alla “famiglia della Roma” salvo aver prima inviato un certificato medico che annunciava un mese di riposo per il forte stress vissuto dal calciatore nelle ultime settimane.
Una vicenda dai contorni barzellettistici che alla fine non ha fatto ridere nessuno. Né il club, che ha visto svanire un affare da oltre trenta milioni di euro (una vera boccata d’ossigeno visti gli impegni della Roma con la Uefa). Né l’allenatore, che ha perso un giocatore importante senza poterlo sostituire. Né il calciatore, che si è ritrovato protagonista di una favola molto diversa da quella che sperava di interpretare. Perché la vicenda Zaniolo ha posto l’accento su un principio piuttosto banale: il prezzo di un giocatore è determinato più da chi è disposto a comprare che da chi vuole vendere. Così nella finestra di gennaio Nicolò si è trovato a essere incedibile per mancanza di acquirenti. Nessun top club europeo si è voluto spingere fino ai 35 milioni che la Roma chiedeva inizialmente per il suo cartellino. L’unica proposta concreta in un mare di “pagherò” è arrivata dalla penultima in classifica della Premier League. Un dato che dice molto sulle possibilità di spesa del Milan campione d’Italia (l’altro club che aveva corteggiato a lungo il ragazzo), ma soprattutto sulla percezione di Zaniolo all’estero.
Quello che sembrava dover essere il talento più fulgido della nuova generazione tricolore pesa quanto Hamed Traorè. Tradotto: un buon giocatore, forse ottimo, ma comunque molto distante dall’idea di top player. Il cuore della questione è racchiuso in un delta, nel differenziale fra l’epifania del talento di Nicolò, con quell’abbacinante esordio in Champions League dove gli era bastata una semplice finta di corpo per eludere la marcatura dei centrocampisti del Real Madrid, e un presente piuttosto deludente. In mezzo ci sono cinque stagioni (e due infortuni alle ginocchia) in cui Zaniolo non è diventato ciò che avrebbe potuto (o ciò che gli altri speravano potesse essere). La contabilità è impietosa. Nella scorsa annata il suo rendimento è stato al di sotto delle aspettative. Il 22 ha deluso come trequartista esterno. Ha deluso come suggeritore. Ha deluso come punta accanto ad Abraham. Il saldo si è colorato di rosso: 2 reti in campionato, 5 in Conference League (di cui tre nella stessa partita, contro il modesto Bodø/Glimt, e uno nella finale di Tirana, contro il Feyenoord). In questa stagione le cose non sono poi migliorate. Nicolò ha segnato una rete in Serie A e una in Europa League (contro il Ludogorets).
Alla base del suo ammutinamento ci sarebbe il naufragio delle trattativa per il rinnovo del contratto. Ma è difficile spuntare uno stipendio da top player quando un giocatore offensivo segna quanto un difensore. Così Zaniolo è precipitato in un torpore che neanche un martellante José Mourinho è riuscito a scalfire. Le prestazioni a tratti strazianti della Roma nella prima metà di stagione non lo hanno aiutato, eppure sembra di essere finiti in una di quelle situazioni da Febbre a 90, dove è impossibile capire se Zaniolo non rendeva perché la Roma giocava male o se era la Roma che giocava male perché il suo numero 22 non rendeva. E più passavano le giornate, più Nicolò ha iniziato a innervosirsi in campo, a isolarsi andando a infilarsi nelle zone di campo più coperte dagli avversari. Fino a diventare impalpabile. Negli 898 minuti giocati fin qui, Zaniolo è stato il calciatore giallorosso ad aver perso più palloni a partita (3 in media a match, secondo Sofascore). Ma è anche quello con la percentuale di passaggi riusciti più bassa (69.5). Fra quelli che a Roma erano stati definiti i Fab-Four (Dybala, Abraham, Pellegrini e appunto Zaniolo), Nicolò è quello che ha creato meno occasioni da gol (0.6 a partita, tante quante Tahirovic che in serie A ha giocato appena 132’), il penultimo per dribbling riusciti (0,6 a partita) e il peggiore per rapporto fra tiri in porta a partita e gol realizzati (una media di 2.2 tiri a match che ha portato a un solo gol. Abraham, che prima del Mondiale stava vivendo un’involuzione preoccupante, ha segnato 6 reti con 2.1 conclusioni a partita).
Eppure la partenza di Zaniolo si porta dietro un rimpianto. Quello di non averlo mai visto giocare in quello che sembrava essere il suo ruolo naturale: una mezzala offensiva che, grazie a una corsa quasi rugbistica e alla sua capacità di reggere i contrasti, poteva portare avanti il pallone alimentando la transizione offensiva, un clone dell’ultimo Mkhitaryan giallorosso, anche se con una pericolosa tendenza a ingastrirsi e a collezionare gialli. Il trasferimento al Galatasaray è diventata la soluzione migliore perché era l’unica soluzione ancora in piedi. Un ripiego che ha evitato alla Roma e al giocatore un’imbarazzante convivenza forzata (almeno) fino a giugno. Ma anche un ulteriore deprezzamento del cartellino di un ragazzo che difficilmente avrebbe trovato ancora spazio nella capitale. Ora però Zaniolo è chiamato a dimostrare che quella fiamma vista contro il Real Madrid è ancora viva, che non si è spenta sotto le difficoltà di questi anni. È questa è la parte più difficile della storia.