Un “concordato preventivo biennale” con il fisco, grazie al quale le imprese potranno pagare un forfait calcolato dalle Entrate con la garanzia che in caso di aumento dei ricavi non dovranno versare nulla di più. È la grande riforma allo studio del governo Meloni per contrastare l’evasione fiscale delle piccole e medie imprese. “Tu per due anni paghi quel dovuto e se fatturi di più non mi dai nulla, in cambio non ti sottopongo a controlli“, ha sintetizzato la premier nell’intervista al Sole 24 Ore, ripetendo la promessa fatta a dicembre dal viceministro dell’Economia con delega al fisco Maurizio Leo. Quello che Meloni e Leo omettono è che non si tratta propriamente di un’idea nuova. Per dire il vero ha appena compiuto vent’anni: a inventarsela, nel 2003 (subito dopo un maxi condono) fu l’allora ministro Giulio Tremonti. Ma il vero problema è come andò a finire: un flop memorabile. Dai rendiconti delle entrate dello Stato risulta un gettito di appena 57,5 milioni di euro, l’1,6% del gettito inizialmente atteso. Se non bastasse, gli esperti di criminalità finanziaria avvertono che riproporre quella norma sarebbe una manna per chi ha attitudine alle frodi.

In attesa di vedere come l’esecutivo declinerà la riedizione della misura, che dovrebbe essere inserita nella delega fiscale, la parabola di quella sperimentazione appare istruttiva. Il governo Berlusconi inserì la possibilità del concordato preventivo col fisco nella finanziaria per il 2003, poi la travasò nel decretone fiscale collegato alla manovra 2004 stimando 3,58 miliardi di maggiori entrate da una platea potenziale di 4 milioni di contribuenti. Previsione poi ritoccata al ribasso a 2,5 miliardi. Come avrebbe dovuto funzionare? Artigiani, commercianti, professionisti e società avrebbero goduto di una tassa piatta rispettivamente del 23 e 33% (le due aliquote della flat tax promessa dall’ex Cavaliere, altro eterno ritorno) sull’incremento di reddito rispetto al 2001, a patto di ammettere un aumento dei ricavi di almeno il 9% il primo anno e un ulteriore +4,5% nel 2004. Il fisco incassa una ”cifra certa” e il contribuente ha vantaggi ”in termini di risparmio di contabilità, stress, complessità“, riassumeva Tremonti il 4 febbraio 2004, alla presentazione dei moduli per l’adesione. Tra il resto, i commercianti che avessero aderito avrebbero potuto non emettere gli scontrini e non avrebbero subito accertamenti da parte delle Entrate.

Cosa andò storto? Confcommercio fece muro lamentando che fissare un ricavo minimo di 1000 euro equivaleva a introdurre una minimum tax, i commercialisti bocciarono il provvedimento ipotizzandone l’incostituzionalità per violazione dei principi di uguaglianza e progressività e sottolineando che in quella fase economica stagnante i ricavi delle imprese erano in continuo calo, altro che aumenti del 9%. Oltre al fatto che i tempi per aderire erano troppo limitati. Il 17 marzo 2004, scaduti i termini, il Tesoro fece sapere che erano state presentate 250mila domande. Ma un mese dopo, rispondendo a un’interrogazione di Maurizio Leo – all’epoca deputato di An – il sottosegretario all’Economia Daniele Molgora ammise che l’importo raccolto si era fermato a 5,7 milioni da 3.945 contribuenti. Una disfatta, per quanto i dati fossero aggiornati solo a metà marzo. Un anno dopo però la Corte dei Conti nella Relazione sul rendiconto generale dello Stato tirò le somme: se i proventi del condono erano stati imponenti (oltre 8 miliardi) quelli del concordato preventivo di massa risultavano invece “nulli o insignificanti“. Le tabelle sulle entrate suddivise per capitoli, disponibili sul sito della Ragioneria, forniscono i dati esatti: 29 milioni di imposta sul reddito delle persone fisiche, 11 milioni sul reddito delle società e 16,2 milioni di Iva nel 2005 (dichiarazioni relative al 2004), 1,3 milioni di Iva nel 2006. Per un totale di 57,5 milioni.

C’è da chiedersi che senso abbia riproporre l’istituto nel 2023, tanto più che sembra molto simile alla flat tax incrementale di FdI. A meno che l’intenzione non sia quella di applicare il nuovo concordato solo ai redditi superiori a quelli che consentono l’accesso all’attuale tassa piatta. Gli addetti ai lavori hanno molte perplessità. “Che base di riferimento si intende prendere per la prima applicazione?”, si chiede Francesco Puccio, presidente della fondazione Centro studi dell’Unione giovani commercialisti. “Dal 2020 i redditi sono stati inficiati dalla pandemia. E per il secondo anno di applicazione il confronto sarà con quello precedente? In questo modo sarebbe decisamente poco incentivante per chi registra risultati molto positivi”.

Il tributarista Tommaso Di Tanno, che ben ricorda il flop del 2004 e lo attribuisce alla “confusione” della norma e alla (forse voluta) mancanza di comunicazione, non è contrario. Ma solo a patto che il concordato individuale e personalizzato prenda il posto della flat tax: “Sono due strade alternative, incompatibili. La flat tax è il massimo della standardizzazione e rischia di essere il massimo dell’ingiustizia, il concordato è invece all’insegna della personalizzazione, oggi possibile grazie ai big data ai disposizione del fisco. Che consentono di controllare il contribuente e pure di monitorare i funzionari, che sarebbero sottoposti a violente tentazioni corruttive”. Il commercialista Gian Gaetano Bellavia, esperto di diritto penale dell’economia, è molto più tranchant: “Occorrerà leggere il dettaglio della norma, ma a prima vista una cosa del genere sarebbe da un lato poco appetibile per le aziende normali, che in questo contesto geopolitico certo non prevedono chissà quali aumenti di fatturato, dall’altro interessantissima per la criminalità economica, fiscale e finanziaria. Si presta con tutta evidenza a operazioni di spostamento dei ricavi su soggetti tassati in forma forfettaria (e esentati da successivi controlli) attraverso l‘emissione di fatture per operazioni inesistenti“.

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