di Paolo Bagnoli
In questo nostro scombinato Paese siamo abituati a sentirne un po’ di tutti i colori, ma non si finisce mai di stupirci. Recentemente il ministro della cultura Gennaro Sangiuliano ha solennemente proclamato che è addirittura Dante Alighieri la radice del pensiero di destra. Come c’era da aspettarsi, la cosa ha fatto scalpore e creato non poche ilarità e un cadere di braccia generalizzato. Lo stesso Sangiuliano, colpito dalle reazioni ricevute, è poi corso ai ripari con una lettera al Corriere della Sera (16 gennaio 2023) nella quale ha giustificato la sua dichiarazione come “una chiara provocazione culturale” riportando fonti autorevoli; in particolare un’affermazione di un serio studioso della letteratura italiana quale Enrico Ghidetti che ha definito Dante “epicentro ideologico della trattazione del principio di nazionalità”. Si tratta di una definizione ineccepibile, ma il buon Sangiuliano ha equivocato nazionalità con nazionalismo, ossia l’intravedere un’idea dell’Italia con la dottrina fondante della destra: quella stessa che avevano i fascisti. Non c’è bisogno di essere studiosi per capire che si tratta di due cose diverse e addirittura antitetiche: storicamente, politicamente e pure eticamente.
Questo governo, a cominciare dal suo Presidente del Consiglio, usa a ogni piè sospinto il termine nazione in quanto è nazionalista. Il nazionalismo, infatti, è l’unico elemento culturale che ha per giustificarsi sul piano della visione storica, dell’Italia che ha in mente. Alla prova dei fatti, tuttavia, esso persegue atti i quali, invece di compattare in senso nazionale il Paese, destruttura quel tanto o quel poco che di nazione l’Italia esprime. Improvvisati e maldestri impreparati al governo del Paese ritengono che una realtà complessa come la nostra possa essere guidata e gestita con toni, modi e furbizie tipicamente italiche; ritengono che, per governare, basti attaccare con arroganza l’opposizione, non rendendosi conto di cosa comporti la dimensione istituzionale della lotta politica; muovendosi, cioè, come coloro che dopo una lunghissima emarginazione dovuta alla storia, una volta arrivati al potere possano comportarsi quali padroni indiscussi dello Stato come se la lunga emarginazione dia loro il diritto di muoversi come meglio credono poiché è finalmente suonata l’ora della riscossa.
Noi, delle dichiarazioni di Sangiuliano, non ci siamo stupiti. La ricerca di radici culturali rilevanti al fine di giustificare la funzione nazionale di se stessi è qualcosa che in questo Paese è già avvenuto. Il fascismo ci si applicò con tenacia per ammantarsi di un ruolo unificatore positivo giustificante la violenza con cui era andato al potere per evitare il pericolo del bolscevismo che, nella realtà, non c’era mai stato. Infatti, il “biennio rosso” non si fondava su motivi rivoluzionari o su tentazioni di promuovere un colpo di Stato come era avvenuto in Russia. Non essendo nelle condizioni, coloro che si dichiaravano comunisti – la corrente che si staccò nel 1921 dal Psi e i socialisti serratiani che pure definivano la loro corrente “comunisti unitari”- nelle condizioni oggettive di mettere in pratica né un disegno rivoluzionario né un sistematico uso della violenza come aveva fatto Lenin in Russia per conquistare il potere.
Inneggiavano alla “rivoluzione”, ma le parole per quanto forti potessero essere erano solo parole che sortirono solo l’effetto di spaventare i ceti reazionari. Ma da qui a parlare di rivoluzione ce ne corre; poiché quella di Lenin non fu una rivoluzione – non dimentichiamoci che lo zar cadde quando Aleksandr Kerensky era presidente del Consiglio – ma un vero e proprio colpo di Stato che, come tutti i colpi di Stato, si attuò tramite l’esercizio sistematico della violenza.
Gli intellettuali fascisti si misero all’opera per costruire un lungo filo di coerenza nazionalistica per storicizzare il Regime quale punto di approdo di un lungo percorso culturale secondo un motivo intenzionale uniforme. Dante, certo, ma anche Machiavelli e giù giù fino a Benito Mussolini. Per esempio, sulla Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto di Giorgio Del Vecchio troviamo dotti saggi in materia. Poi, per una tragica ironia della sorte, nel 1938 Del Vecchio, fascista più che convinto, perse la cattedra a causa delle leggi razziali; infami provvedimenti a cui il germe del nazionalismo era tutt’altro che estraneo essendo divenuto addirittura fattore di genetica; un singolare dato biologico giustificante l’ereditarietà degli organismi viventi. Un’aberrazione che ha prodotto quanto è ben noto.
Insomma, Sangiuliano ha cercato di ripercorrere una strada non nuova, già battuta dal fascismo, ossia dalla fonte storica da cui deriva la forza che ha vinto le elezioni e oggi governa. Altro che provocazione. E’ un déjà vu; un episodio che ci dice in che acque navighi la nostra democrazia.
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