Sono attualmente 200 i casi registrati tra volpi, lontre, visoni e altri mammiferi. In Italia sono 30 i focolai tra gli uccelli. Lo spill over è già avvenuto nel 2003 e negli ultimi vent’anni, secondo l’Oms, ha fatto 456 vittime. Massimo Puoti, direttore del reparto Malattie infettive dell’ospedale Niguarda: "Non significa che ci siano i presupposti perché passi dal visone all’uomo e poi da uomo a uomo. Per ora dobbiamo prestare attenzione senza allarmismo"
Una nuova epidemia è tornata a preoccupare il mondo. Si tratta dell’influenza aviaria, un virus (H5N1) diffuso soprattutto tra gli uccelli selvatici, come le anatre, che contagia facilmente anche quelli da allevamento, come polli e tacchini. Secondo i dati raccolti dalla World Organization for animal health (Woah) ha già portato alla morte 208 volatili in tutto il mondo. A causare lo stato di allerta sono però i 200 casi registrati tra i mammiferi (lontre, volpi e visoni) in Spagna e Regno Unito. “La novità è il passaggio del virus a mammiferi che riescono a trasmettersi il virus tra di loro, quando solitamente rimaneva confinato all’esemplare contagiato – spiega Massimo Puoti, medico chirurgo infettivologo e gastroenterologo e, dal 2010, direttore del reparto Malattie infettive dell’ospedale Niguarda di Milano – Questo però non significa che ci siano i presupposti perché passi, per esempio, dal visone all’uomo e poi da uomo a uomo. Per ora dobbiamo prestare attenzione ed eventualmente preparare piani di sorveglianza e prevenzione, ma non è necessario creare allarmismo”.
I primi casi dell’ultima epidemia di influenza aviaria si sono registrati a ottobre 2021. Da allora la Woah stima siano stati contagiati quasi 42 milioni di uccelli e che ne siano morti 15 milioni, a causa dei sintomi, e altri 193 milioni con gli abbattimenti massicci per limitare la circolazione del virus. In Italia, secondo i dati del ministero della Salute, attualmente sono una trentina i focolai, diffusi in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Questa malattia “è molto simile all’influenza – spiega Puoti – Si è diffusa soprattutto in Asia a causa della vendita di pollame vivo o di altri animali nei mercati umidi”. Riesce a contagiare almeno 63 tipi di uccelli e, se contratta, in una forma altamente patogena porta rapidamente alla morte. I 119 focolai che sono stati riscontrati tra orsi grizzly in America, ma anche volpi, lontre, delfini e foche nel Regno Unito hanno perciò messo in allerta gli esperti. È infatti la prima volta che il virus dell’influenza aviaria trasmette tra mammiferi. “Finora il passaggio tra uccelli e altre categorie c’era stato, ma nessuno lo aveva, a sua volta, passato ad altri. Nel caso delle volpi è meno fisiologico, ma il trasferimento di solito dipende da condizioni atipiche – spiega l’infettivologo – per esempio quelle degli allevamenti dei visoni in Spagna, dove gli animali sono costretti in spazi strettissimi”. Il virus infatti, secondo le informazioni fornite dall’Istituto superiore di sanità, si può trasmettere tra i diversi esemplati “tramite i mezzi meccanici, gli attrezzi e strumenti contaminati, le macchine, i mangimi, le gabbie, o perfino gli indumenti degli operatori”, si legge sul sito.
I dati raccolti negli ultimi mesi segnalano una situazione anomala, che “si deve affrontare con una logica di salute globale, senza guardare solo agli esseri umani – afferma Puoti – Gli allevamenti sono stati posti sotto osservazione ed è stato messo in campo un sistema di sorveglianza estesa. In Spagna per ora non sono stati riscontrati casi tra gli umani. In ogni caso abbiamo alte possibilità di sviluppare vaccini efficaci e farmaci per la terapia”. Bisogna però monitorare attentamente i cambiamenti del virus, considerato altamente instabile: “Al contrario di quello del Covid-19, ha una scarsa capacità di correzione, cioè di mutazione del suo programma genetico, tramite acido nucleico”. Dunque, tramite un processo di “deriva genetica”, cambia le sue condizioni di base velocemente, creando sottotipi virali anche molto diversi da quelli parentali. Diventa quindi “capace di indurre la malattia anche in soggetti che siano stati preventivamente vaccinati”, si legge sul sito dell’Iss.
Il primo spill over, cioè il salto di specie, verso l’uomo, è già avvenuto nel 2003, pochi anni dopo l’identificazione del primo caso animale in un allevamento di oche nel Guangdong, in Cina, nel 1996. Negli ultimi vent’anni, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) sono stati 865 i casi di infezione umana con il virus, in 21 paesi. Di questi, 456 sono stati fatali. La maggior parte però, in Africa e Asia, era dovuto alla manipolazione del pollame vivo e non ai contagi tra esseri umani. Il virus non è però da sottovalutare. Sono necessari “piani pandemici e di sorveglianza” per arginarlo e non solo per i suoi effetti disastrosi sull’equilibrio degli ecosistemi e per le perdite economiche (fino a 65 milioni di dollari negli Anni Novanta) negli allevamenti avicoli: “Secondo gli epidemiologi, ci sono una serie di elementi che rendono H5N1 il candidato favorito per una prossima pandemia – si legge sul sito dell’Iss – è infatti molto aggressivo tra le popolazioni aviarie, si è diffuso ed è permanente nelle regioni asiatiche ma ha raggiunto anche la regione europea grazie alle migrazioni di stormi di uccelli. Inoltre – conclude la nota – in tutte le precedenti pandemie influenzali il virus è sempre stato di origine aviaria”.