Ricordate il vostro più odioso compagno di scuola? Quello che alzava sempre la mano, sapeva sempre tutto e non passava mai i compiti? Quel compagno, da grande, ha avuto successo, anzi un successo planetario ed è diventato uno dei più grandi direttori d’orchestra del mondo ed è il protagonista dell’ultimo film con Cate Blanchett. Il film è Tàr e Lydia Tàr è lei, australiana più britannica che si immagini, come sempre di una bravura innaturale, una Laurence Olivier dei nostri giorni.
A suo agio in qualsiasi ruolo, anche il più scomodo, in questo film di Todd Field, dà vita a un personaggio difficile, antipatico, violento, egoista, viziato ma dal talento musicale smisurato. Grazie alla presenza di una attrice come Cate, il film si può permettere di criticare apertamente temi attuali molto scomodi soprattutto negli Stati Uniti, come il metoo o le differenze di genere e potrebbe essere questo l’unico motivo di non attribuirle l‘Oscar 2023 per la migliore interpretazione femminile.
Memorabile la sequenza in cui la direttrice d’orchestra, lesbica e ricchissima rifugge la parola ”direttrice d’orchestra” e si fa invece chiamare ”maestro”. Un maestro che impartisce una severa lezione sul talento a un allievo gay che si permette di criticare Bach con gli effimeri parametri contemporanei (venti figli, la sua misoginia): “Il narcisismo delle piccole differenze conduce al più noioso dei conformismi”, la frase con la quale Tàr gela e congeda il poveretto in lacrime.
Tàr non è per niente una brava persona, come si scopre a mano a mano che ci si addentra nelle quasi tre ore di film. E’ ossessionata dai rumori inutili (“la sensibilità al rumore è indice di un’intelligenza superiore diceva Schopenauher”). Senza fare spoiler, vi basti sapere che un parallelismo con La morte a Venezia di Luchino Visconti è evidente sia per le vicissitudini sentimentali della protagonista sia, soprattutto, perché l’intera vicenda gira attorno alla preparazione di un concerto della Quinta sinfonia di Gustav Mahler e il suo celeberrimo adagetto.
È stato scritto che Tàr è un film sul potere. Certo che lo è, ma è un pink power che si rivela assai peggiore di quello patriarcale e più vendicativo fatto di cattiverie calcolate e gratuite. E pensare che il peggiore insulto che Tàr lancia a chi la contrasta è quello di essere un ”robot” (una macchina, certo, ma dalla etimologia che riporta alla parola ”schiavo”). In realtà nessuno ha meno cuore di lei e paga il suo squilibrato rapporto con gli altri esseri umani solo quando le persone a lei più vicine si comportano in modo simile a lei. Un genio deve anche essere necessariamente buono? È davvero quel kalos kagathos che dipingevano gli antichi Greci? Tàr ci dice esattamente il contrario di tutto quello cui ci hanno abituato negli ultimi tempi. E’ un eroe (mai eroina!) tragico che va contro ogni politicamente corretto.
Un rovesciamento completo dei luoghi comuni più attuali che dipingono tutte le donne in qualche modo emarginate, sfruttate, subalterne e violentate in mille impercettibili modi. Un rovesciamento che il regista impone alla nostra attenzione fin dai primi dieci minuti del film costringendoci a leggere tutti i titoli di coda, in testa. Dal 9 febbraio Tàr è in sala ma vi sconsiglio di vederlo con la vostra metà – quale che sia – per San Valentino. Potreste non uscirne vivi.