Oltre sessanta le testate giornalistiche accreditate tra stampa e tv, diciotto le associazioni che hanno chiesto di costituirsi parte civile per far sentire la loro vicinanza. I giudici hanno rinviato al decisione al 17 febbraio, quando sarà valutata anche la richiesta della procura guidata da Gaetano Calogero Paci che riguarda il papà Shabbar Abbas
Lo zio e i due cugini presenti in Aula, la madre latitante e il padre nelle mani delle autorità del Pakistan. Il processo per il femminicidio della giovane Saman Abbas è iniziato davanti alla Corte d’assise di Reggio Emilia alla presenza di solo tre dei cinque imputati. Danish Hasnain, Ikram Ijaz e Nomanhulaq Nomanhulaq si sono ritrovati seduti nella stessa stanza: il primo, giubbotto smanicato rosso e sguardo attento a seguire quello che succedeva intorno, gli altri due immobili, vestiti di scuro e con gli occhi quasi sempre fissi avanti. A quasi due anni di distanza dalla uccisione della ragazza che si era opposta a un matrimonio forzato e chiedeva di poter decidere per la sua vita, è partito il procedimento che dovrà stabilire che cosa è successo la notte della sua scomparsa. Oltre sessanta le testate giornalistiche accreditate tra stampa e tv, diciotto le associazioni che hanno chiesto di costituirsi parte civile per far sentire la loro vicinanza. Nel merito i giudici hanno rinviato la decisione al 17 febbraio, quando sarà valutata anche la richiesta che riguarda il papà Shabbar Abbas: la sua posizione è stata stralciata, ma la procura, guidata da Gaetano Calogero Paci, ha chiesto alla Corte che sia consentito il collegamento in videoconferenza. Una mossa determinante che potrebbe sbloccare la situazione: se lui decidesse di accettare salterebbe il legittimo impedimento alla partecipazione; se rifiutasse sarebbe processato in contumacia. Nel caso, infine, che fosse liberato su cauzione, sarebbe considerato latitante e quindi assente. Tutte eventualità che permetterebbero di far andare avanti il processo. E mai come in questo caso, dopo settimane di telecamere puntate sulle campagne di Novellara, si respira l’urgenza che si sblocchi la situazione. Anche per questo, fuori dall’Aula, c’è stato un presidio di attiviste che hanno chiesto una presa di posizione della politica. Perché alla verità giudiziaria, si accompagni una maggiore consapevolezza del bisogno di sostegno e prevenzione per tutte le altre ragazze che, come Saman Abbas, vogliono scegliersi il futuro. E perché l’attenzione collettiva non si esaurisca con la cronaca nera.
Diciotto associazioni che chiedono di costituirsi parte civile – Le protagoniste della prima udienza sono state le realtà che vogliono essere riconosciute parte civile del processo. Tra le associazioni che hanno fatto richiesta, e che non sono state contestate dalla difesa, ci sono Trama di Terre e NonDaSola. Trama di Terre è l’associazione di donne native e migranti, fondata a Imola nel 1997, e che dal 2009 è in prima linea contro i matrimoni forzati sul territorio. Negli anni ha dato rifugio e accoglienza a ragazze che scappavano dalle nozze forzate da tutta Italia. “Quasi vent’anni fa”, ha detto la fondatrice Tiziana Dal Pra, “ero a Brescia per il processo di Hina Saleem e il movimento delle donne non c’era. Oggi ci siamo in tante e per tutte le altre che non abbiamo amato, intercettato, protetto”. Al loro fianco anche NonDaSola, rappresentata da Giovanna Fava, che sostiene le donne sopravvissute alla violenza a Reggio Emilia. Tra chi ha fatto richiesta ci sono poi anche altre associazioni impegnate per i diritti delle donne a livello nazionale e alle quali, la difesa, ha contestata la competenza territoriale: ad esempio, Differenza donna e l’Associazione nazionale Unione donne. Ma anche: Senza veli sulla lingua, l’Osservatorio nazionale sostegno vittime, l’associazione Penelope per le persone scomparse, Al posto tuo, Meta, Confederazione islamica italiana, Associazione italiana vittime di violenza, Centro internazionale diritti umani, Alone. Tra le personalità singole invece, si è presentato, tramite l’avvocato, il fidanzato di Saman Abbas Saqib Ayub. Tra le parti civili già ammesse ci sono il fratello di Saman Abbas, il Comune di Novellara, l’Unione delle comunità islamiche italiane, l’Unione bassa reggiana. In Aula era presente anche la deputata M5s Stefania Ascari, prima firmataria della proposta di legge per dare il permesso di soggiorno temporaneo alle vittime di matrimonio forzato. Insieme a lei anche la senatrice Pd Enza Rando e la consigliera comunale dem a Reggio Emilia e attivista del movimento Italiani senza cittadinanza Marwa Mahmoud.
Il femminicidio e i punti ancora da chiarire – Se i due cugini, Ijaz e Nomanhulaq, sono entrati e usciti dall’Aula come fantasmi, non è passato inosservato l’ingresso dello zio Danish Hasnain. Telecamere puntate sui suoi movimenti, ha seguito ogni passaggio della discussione e più di una volta si è avvicinato all’avvocato Liborio Cataliotti per chiedere chiarimenti. Hasnain è considerato dagli investigatori l’esecutore materiale del femminicidio. Lui però, nega di aver ammazzato la cugina. E anzi, subito dopo l’arresto di Shabbar Abbas in Pakistan, ha iniziato a dire di voler collaborare: il 16 novembre scorso è stato lui ad accompagnare gli investigatori nel luogo dove era sepolta la cugina, in un’area molto vicina al casolare dove vivevano. Poi, ha insistito per dare un’altra versione dei fatti: ha sostenuto che sarebbero stati i cugini a chiamarlo per chiedere di nascondere il corpo. E ha fatto sapere di aver aspettato a parlare perché, finché Shabbar Abbas era libero, temeva per l’incolumità sua e quella dei suoi familiari. Ad accusare lo zio però, è il fratello minorenne di Saman che lo ha accusato di averla strangolata.
Su come sia avvenuta l’uccisione di Saman Abbas si sa ancora molto poco. Era la notte tra il 30 aprile e il primo maggio 2021 e la ragazza è uscita di casa con uno zainetto insieme alla madre. Non è mai più rientrata: gli ultimi istanti di vita sono stati catturati dalle telecamere di sorveglianza del casolare. Poi più niente. Le ricerche sono iniziate solo il 5 maggio: i carabinieri sono andati a suonare alla porta, ma era già tardi. Le forze dell’ordine sapevano che la situazione era pericolosa. Saman Abbas nel 2020 aveva denunciato la famiglia per maltrattamenti ed era stata allontanata. Poi il rientro. Una delle ipotesi più accreditate dagli investigatori è che volesse riprendere i documenti e sia stata trattenuta. Non si esclude che volesse anche tentare una mediazione perché la madre e il padre accettassero la sua nuova vita. Un’illusione che le è costata la morte.
Non ha mai ammesso le violenze neppure il padre. Che dopo l’arresto è arrivato ad affermare che la figlia è ancora viva. Ma agli atti ci sono le sue parole pronunciate al telefono con il fratello, un mese dopo la scomparsa della ragazza: “Io sono già morto, l’ho uccisa io, l’ho uccisa per la mia dignità e per il mio onore. Noi l’abbiamo uccisa”. E ancora: “Per me la dignità degli altri non è più importante della mia”. Agli atti è finita anche una fotografia postata su Instagram da Saman Abbas, nella quale si bacia con il fidanzato mai accettato dalla famiglia: quello scatto, dicono gli investigatori, ha fatto scattare l’ultima punizione. Resta infine un enigma il ruolo della madre Nazia Shaheen. Latitante, dal primo maggio 2021 non si hanno sue notizie. Si è parlato di una sua parentela con fonti investigative pachistane che le garantirebbero una protezione, ma non tale da renderla irraggiungibile se si sbloccasse la situazione che riguarda il padre. Il punto è riuscire a convincere le autorità pachistane che si tratta di un processo per un delitto di sangue e non un processo al Pakistan. Questa la premura di chi sta lavorando per il rientro della coppia a livello diplomatico. Un lavoro lungo e, sotto molti aspetti, politico. “Io e tuo padre siamo morti lì”, disse la donna parlando al telefono con il figlio rimasto in Italia. Ma loro, a differenza di Saman Abbas, non sono morti. E anche di quella frase, se mai saranno processati, dovranno rendere conto.