Partiamo da un presupposto fondamentale: il Festival di Sanremo non è uno strumento di lotta. È un palcoscenico e sul quel palco sono andate, vanno e andranno le realtà che fanno parte della composita società italiana, sia nei suoi aspetti più grevi e volgari, sia nelle sue manifestazioni più luminose.
Tale premessa è necessaria perché non voglio parlare del Festival come di un momento che rivoluzionerà le nostre esistenze. Tante le sue criticità: ad esempio, la predominanza di una conduzione rigorosamente al maschile. Certo, mi direte, ci sono diverse co-conduttrici. Peccato che un cameo non abbia lo stesso valore di un personaggio principale. Per quanto, poi, possa essere ben riuscito o fondamentale. Ma a Sanremo il protagonista è il maschio che dirige la scena. Le donne sono, de facto, ridotte a vallette. Con un nome più accattivante, ok. Ma questo è.
Tolti, dunque, i limiti forse dovuti alla natura stessa dell’evento, su quel palco da qualche anno a questa parte si fanno sempre più spazio identità e narrazioni un tempo ritenute impensabili (o non rappresentabili). Su quel palco, molto tempo fa, si esibì Umberto Bindi, allontanato dalle scene perché dichiaratamente omosessuale. Oggi le identità del panorama Lgbt+ sono rappresentate, anche in forme meno “rassicuranti” e istituzionalizzate, come possiamo vedere per Rosa Chemical e il suo brano sulla sessualità libera. Allo stesso tempo, abbiamo Ariete la cui canzone parla di una storia d’amore tra donne.
E non solo.
La questione femminile porta all’Ariston alcune delle sue parole d’ordine. Chiara Ferragni – a scanso di equivoci: non sto dicendo che la presentatrice è una guerriera femminista – ha ricordato a una platea non certo progressista e a alcune decine di milioni di connazionali che l’autodeterminazione è un valore non negoziabile. E nemmeno discutibile. Concetto poi ripreso dal marito che, la sera dopo, ha legittimamente ricordato l’inadeguatezza dell’attuale governo rispetto a tali discorsi. Sollevando, va da sé, le critiche di quella stampa di destra e di quella classe dirigente che ai tempi del ddl Zan si stracciava le vesti paventando la fine della libertà d’opinione e che oggi, invece, grida alla censura rispetto a prese di posizioni non conformi con la narrazione “conservatrice” dell’attuale maggioranza. Qualcuno, in altri contesti, agiterebbe lo spettro del “pensiero unico”.
Singolare che poi la difesa delle donne iraniane sia avvenuta con la presenza di un’attivista per i diritti umani, Pegah Moshir Pour, insieme a Drusilla Foer: lo scorso anno, proprio quest’ultima venne attaccata da “femministe” trans-escludenti che vedevano nel personaggio la cancellazione del femminile. E invece…
Ritroviamo, ancora, la critica al razzismo con la presenza di personalità non bianche: certo, Paola Egonu non è la prima donna di pelle nera a salire su quel palco. Ma la pallavolista è la testimonial di un odio sociale – e social – che fa del colore della sua pelle un motivo di disprezzo. E, anche se dispiace a qualche politico di destra (estrema e non), è vero: l’Italia è razzista. Non tutta, ovviamente. Ma lo è. E le polemiche sulla sua presenza a Sanremo ne sono l’immagine. Per altro, nel suo monologo, Egonu ci ha ricordato che esser minoranze vuol dire subire due forze uguali e contrarie: il disprezzo di chi non ti considera suo pari e la minimizzazione di chi crede che i tuoi atti di denuncia siano solo un piagnisteo. Una denuncia importante.
La questione generazionale, ancora. Dai momenti più “politicamente corretti”, come il duetto tra Sangiovanni e Gianni Morandi, a quello più “iconoclasta” di Blanco che devasta il palco distruggendo le fioriere (no, non ho apprezzato il gesto, ma eviterei di accanirci su un momento di sbrocco – per quanto inelegante – per altro previsto in scaletta, come si apprende). Il dialogo intergenerazionale, con i momenti di confronto o di conflitto profondo, insieme all’incapacità di comunicare il proprio disagio è un’altra questione che sta lì, di fronte ai nostri occhi. E si esprime anche linguisticamente parlando: anche il termine boomer ha fatto il suo ingresso a Sanremo, specchio di una dialettica tra vecchie e giovani generazioni.
Certo, tutti questi aspetti non sono affrontati politicamente, non nel senso più puro del termine. Sono manifestazioni di questioni altre che però si sono capillarizzate, lasciando la vecchia marginalità per diventare “narrazione” televisiva. E pur con tutti i limiti di una manifestazione come Sanremo, la quotidianizzazione di un fenomeno è un atto politico di per sé. A tal punto che le polemiche più feroci arrivano proprio da quelle forze che vorrebbero donne, migranti e persone Lgbt+ ai margini della collettività.
Per cui, ok: sarà un festival di canzonette, ma un paio di punti a nostro favore, quanto meno sul piano della visibilità, li abbiamo segnati. Possiamo anche dirci felici di questo. La lotta, poi, continueremo a farla nelle sedi più opportune.