Fasci di rose strette velocemente tra un piede e l’altro e poi via, saltar giù dal palco dell’Ariston con i fiori che volano verso il pubblico in prima fila. L’unico Blanco che una rubrica dal nome “Ti Ricordi” e a tema calcio può riconoscere a Sanremo avrebbe fatto la Cuauhteminha, altroché. In fondo, prendendola con le dovute pinze, Sanremo qualche similitudine coi Mondiali ce l’ha: è un evento che si presenta con cadenza regolare, che è molto seguito e che riserva sorprese a cui poi ti affezioni.
Blanco, inteso ovviamente come Cuauhtémoc (e chi altri?), a Sanremo ci sarebbe stato bene come ci stava ai mondiali. Un uomo di spettacolo, probabilmente non uno spettacolo di uomo, che l’improvvisazione l’ha dovuta imparare fin da subito: da quando bambino, chiamato con quel nome in onore dell’ultimo imperatore azteco, deve crescere a Tepito, un quartiere di Città del Messico famoso per la venerazione della “Santa Muerte” e per l’altissimo tasso delinquenziale. Aiuta la mamma a vendere videocassette pirata, ma spesso gliele rubano e lui deve rimediare per riprendersi il maltolto, inventando qualcosa ovviamente. Quando può gioca a pallone nell’“Impala”, una squadra di ragazzetti dei barrio: è piccoletto e tarchiatello, ma non fa mai cadere la palla a terra, quello è il suo divertimento. E’ un attaccante, ma nel primo provino il mister lo fa giocare difensore centrale…ovviamente va male. Ma poi lo nota Angel “Coca” Gonzalez e lo porta all’Amèrica, con cui firma il primo contratto con annesso primo stipendio: una torta da comprare alla mamma.
A 21 anni diventa titolare con Beenhaker: è bravo, un vero giocoliere, ma anche matto e facile alle intemperanze in campo. Nel 1995 esordisce in nazionale, nel 1998 arriva la convocazione ai Mondiali in Francia. L’esordio è con la Corea del Sud, che passa in vantaggio su punizione, poi pareggia Pelaez. E’ a quel punto che Blanco si presenta al mondo: gli avversari raddoppiano su di lui alto a sinistra, e per tutta risposta lui prende palla tra i piedi, salta in mezzo ai due lasciando il pallone a mezza altezza (altrimenti sarebbe una giocata irregolare) e scappa. Poco dopo serve un assist per un altro calciatore che diventerà protagonista in quei mondiali, Luis Hernandez. Quella giocata che Blanco ripeterà più volte e che in Messico era già conosciuta diventerà la “Cuauteminha”, ma anche “la tenaglia”, il “salto della rana” e altre varianti. Blanco segna col Belgio nella seconda gara e serve un assist negli ottavi di finale che il Messico perde contro la Germania.
Così si presenta all’Europa, anche se la chiamata di un club del Vecchio Continente arriverà solo due anni più tardi. Due anni e una Confederation Cup più tardi a dir la verità: già perché Cuauhtémoc Blanco vince nel 1999 col Messico e in Messico quella coppa, da protagonista. Ne fa 4 all’esordio all’Arabia Saudita, è suo il gol decisivo in semifinale, ai supplementari contro gli Stati Uniti. E in finale contro il Brasile, in una gara bellissima finita 4 a 3 il quarto gol è proprio di Blanco. Dunque l’Europa: ad accaparrarselo nel 2000 è il Valladolid, ma in un match di qualificazione a Port of Spain contro Trinidad e Tobago Blanco si rompe tibia e perone. Qualche mese dopo rischia di annegare in piscina, ma lo scopo è nobile: talmente forte è la voglia di tornare in campo nella sua grande occasione in Spagna che pur di accelerare con la riabilitazione si butta in acqua senza saper nuotare. Col Valladolid scende in campo solo 23 volte, segnando 3 gol, tra cui una splendida punizione contro il Real Madrid.
Ovviamente c’è ai Mondiali del 2002: c’è quando contro l’Italia di Trapattoni nel girone di qualificazione si inventa l’assist per quel gol impossibile di Jared Borgetti e ovviamente tra una giocata e l’altra infila una cuauhteminha tra Zambrotta e Cannavaro. Le giocate di Blanco valgono il primo posto al Messico in quel girone difficilissimo che oltre all’Italia del Trap vedeva come avversarie anche la Croazia e l’Ecuador. Incomprensibilmente però i ragazzi del “Tri” si fermano agli ottavi contro gli Stati Uniti.
Blanco intanto torna in Messico, all’America, e inizia a combinarne una dopo l’altra, che prendere a calci un mazzo di rose è robetta: tra gomitate nei denti agli avversari, commenti sessisti contro una guardalinee donna, parole non proprio dolci al suo capitano Rafa Marquez, fino a un’esultanza che lo vede a quattro zampe e con la gamba alzata tipo cane e con un portiere avversario a mo’ di albero dopo un gol. Questo, e i rapporti tesi con La Volpe, gli costeranno il Mondiale 2006 (cosa che provocherà quasi una sommossa popolare in patria): Blanco avrà modo di vendicarsi tempo dopo, quando dopo aver fatto gol all’Atlas allenato da La Volpe esulterà sdraiandosi in stile Venere di Botticelli (o Platini, volendo), di fronte all’allenatore guardandolo beffardo.
Vola in America al Chicago Fire, dove ha tempo per farsi amare anche dai tifosi americani. Potrebbe finire al Catania, ma l’affare sfuma. Partecipa al mondiale 2010 e segna, a 37 anni. Chiude la carriera nel suo America, con una partita celebrativa nel 2016. Poi si ricicla prima come attore, senza troppo successo, ma diventando icona (ovviamente) di alcune pubblicità, ad esempio sbagliando la pronuncia della Pepsi portando la stessa azienda a commercializzare in Messico la “Pecsi” e infine governatore dello Stato di Morelos, che c’entra poco con i posti in cui ha vissuto ma tant’è. Insomma, calciatore forte sì, ma anche personaggio interessante per quanto pittoresco: degno del palco dell’Ariston, senza bisogno di scalciare le rose.