di Ilaria Muggianu Scano

In Italia ogni flagello, o meglio, ogni fenomeno avvertito come tale, pare durare vent’anni. Non un giorno più, non uno in meno. Il modus operandi sembra essere sempre lo stesso e pare accanirsi sul libero pensiero: tre volte su tre. Se dal 1922 al 1943, la forma di censura più nota, quella del regime fascista, inibiva in un pericoloso effetto domino, qualsiasi forma di espressione libera, tanto da essere ben riconoscibile ed espugnabile come nemico ben connotato e più sibillina sembra essere quella denunciata dai detrattori del governo Berlusconi che, per chi gode di buona memoria storica, sembra operare in maniera retroattiva rispetto all’effettiva discesa ufficiale del presidente di Forza Italia nell’agone politico, nel 1994.

Una delle scelte storiche dei palinsesti televisivi del gruppo berlusconiano dell’allora Fininvest fu la scelta rivoluzionaria di proporre, oltre gli spettacoli d’evasione in prima serata con le donnine seminude di Drive In, quello di trasmettere i programmi di intrattenimento per l’infanzia in fascia pre serale, in coincidenza della trasmissione dei telegiornali. Sull’onda di un certo successo la programmazione, qualche anno più tardi quindi metà degli anni 80, si intensificò con la proposta dei cartoni animati nei giorni pari e la trasmissione di soap opera per adolescenti con protagonista una Cristina D’Avena, che metteva in scena la propria biografia. Successo inspiegabile, ma clamoroso, non gradito da tanti che vedevano in questa scelta mediatica un tentativo di rincretinimento delle masse popolari.

L’epoca è effettivamente quella di un televisore per famiglia e in molti casi era difficile non accontentare i bimbi più piccini. Gli adolescenti che non venivano assecondati sbuffavano e si chiudevano in camera senza, di fatto, seguire un telegiornale. E anche dentro la bolla berlusconiana vent’anni sono trascorsi tutti. Oggi una simile polemica non avrebbe senso di esistere: è l’epoca di uno smartphone a testa, in famiglia e l’informazione è una costante dei social. È rarissimo il bambino della scuola primaria che non sappia chi sia Matteo Salvini o Giorgia Meloni. Il monopolio dell’attenzione mediatica ora sembra, invece, imbibita in un interminabile “panferragnesimo” che sembra non solo non conoscere tramonto, ma dirigersi ad ampie falcate verso un nuovo ventennio.

Di qualche giorno fa il meta monologo in cui Chiara Ferragni, in un battesimo nazional popolare dell’unico spazio che ancora non era suo: l’universo televisivo. Chiara Ferragni non chiede niente: smercia legittimamente producendo denari. Sarebbe stato molto leale invitarla alla manifestazione canora sanremese, che è la più importante vetrina mediatica italiana, per chiederle: “Che consigli darebbe ai giovani che intendono percorrere la strada di imprenditori digitali, dal momento che lei è la più nota esponente del Paese?”. Ma la realtà è sempre più surreale e immaginifica del sogno in Italia, così l’imprenditrice ha dato inizio a una narrazione lisergica di tutte le battaglie condotte in vita sua, qualcuna sembrerebbe pure precedere la sua nascita. Uno storytelling così estensivo che veramente tocca qualsiasi ambiente e davanti al quale tutti ammutoliscono.

Persino i programmi di satira edulcorano qualsiasi considerazione nei confronti della bella imprenditrice, anche i comici di Striscia la Notizia o scrittori impegnati come Michela Murgia, di solito tanto pungente, nei confronti dei Ferragnez è insolitamente mansueta, ma questo è giustificato – io credo – da un rapporto di stima reciproca innescato dal rapper Fedez che citò un’opera della Murgia in un suo brano. Tutto il resto dell’universo mediatico è impegnato in un’operazione di piaggeria inspiegabile e genuflessa, del tutto consapevole, e data l’età di giornalisti, comunicatori e falangi di supporter influencer di basso medio cabotaggio. C’è da prendere in considerazione che il ventennio dei Ferragnez non è poi un’ipotesi tanto assurda. E, stavolta, del tutto volontaria.

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