In attesa che Chiara Ferragni torni in televisione per la finale di Sanremo, riprendo le principali critiche che in questi giorni le sono state mosse, sui social come negli uffici, sui giornali come nei bar, sugli autobus come nei corridoi delle scuole e università. Lo dico subito: alcune sono fondate, ma per me i punti a suo favore sono nettamente superiori a quelli contro. Vediamo in dettaglio.

1. È una privilegiata. Certo che lo è: ha accumulato una notevole ricchezza. E per giunta – aggiunge chi non la sopporta – non partiva da zero. Certo, non viene da una famiglia povera, perché suo padre era (ed è) un dentista e sua madre, oggi scrittrice, era vicedirettrice di uno showroom a Milano. Magari hanno pure beni di famiglia, che ne so, ma non stiamo comunque parlando di una supermilionaria alla nascita: le cifre grosse le ha fatte Chiara con il suo lavoro e la sua creatività, questo le va riconosciuto. Però, cosa c’entra?

Innanzitutto, il suo monologo non vale solo per le donne ricche (vedi sotto). Inoltre, è proprio grazie alla sua posizione privilegiata, per visibilità e denaro, che Ferragni può dire e fare qualcosa di socialmente utile. Non solo per le donne, ma – come ha già fatto varie volte, da sola e col marito – per le comunità LGBTQI+, per l’ospedale San Raffaele, per invogliare le masse a visitare i musei, per la salute mentale e chi più ne ha più ne metta.

Controprova: quante milionarie e milionari dello spettacolo danno prova in Italia dello stesso impegno? Perché gli/le hater non si scagliano contro chi non usa le sue ricchezze per obiettivi socialmente utili?

2. Il monologo era autoreferenziale. Certo, ha parlato a sé stessa bambina. Ma era chiarissimo – tranne a chi già non la sopporta – che voleva invogliare ogni donna a fare altrettanto: parlare a sé stessa in modo accogliente, ammettere le proprie difficoltà e fragilità e farne una forza, no anzi, un orgoglio. Era chiarissimo – tranne a chi già non la sopporta – che quel monologo voleva dire a ogni donna, anche non ricca, non bella, non privilegiata, che se perfino Ferragni, ricca, bella e privilegiata, ha avuto e ha paure, difficoltà, fragilità e ha imparato ad accettarle e superarle, altrettanto può fare ognuna di noi.

Controprova: pensa a quanto sarebbe suonato fastidiosamente pedagogico e calato dall’alto un monologo in cui Ferragni si fosse rivolta con un “tu” o, peggio, con un “voi” all’audience invece che a sé stessa.

3. Il monologo era scritto male. Era imperfetto, certo. Dimostrava ignoranza di tante riflessioni del femminismo storico e dei movimenti neo e postfemministi degli ultimi anni, certo. Era a tratti infantile, certo. E allora? Proprio per questo è suonato autentico. Talmente autentico che una critica più furba avrebbe dovuto, più che additare l’imperfezione, sospettare che questa fosse stata costruita ad arte per simulare autenticità, da un lato, e/o avvicinarsi alla scrittura mediamente ingenua e imperfetta delle donne a cui Ferragni si è rivolta. Cosa che non credo, perché quella scrittura rispecchia lo stile con cui lei parla sui social tutti i giorni.

Controprova: pensa a quanto sarebbe suonato “scritto da altri” un registro stilistico appena un po’ più alto, che magari ammiccasse a competenze anche minime di letteratura femminista, o sfoggiasse qualche svolazzo di presunta bella scrittura.

4. Bene tutto, ma quel vestito finto nudo no. Lo dico subito: sul vestito con cui Ferragni ha recitato il monologo, gli attacchi hanno dato il peggio di sé, come sempre accade quando donne e uomini si scatenano contro il corpo (bello/brutto, grasso/magro, naturale/rifatto e così via) e l’apparenza fisica di una donna (abito, scarpe, trucco, accessori eccetera). Uno schifo anche in questo caso, che spesso ha sconfinato nel body shaming del “troppo magra”, “troppo curva”, “troppo trucco”. La più fondata di queste critiche ha sostenuto che Ferragni, esibendo un corpo fintamente nudo, ha contraddetto non solo il monologo ma la sua donazione all’associazione D.i.Re (Donne in Rete contro la violenza), perché ha fatto leva esattamente su ciò per cui le donne sono usate, abusate, violentate e uccise: il corpo, la bellezza, la nudità. Era meglio non giocare sulla nudità, insomma.

Certo, è un punto problematico, perché ha spostato l’attenzione sulla sua apparenza fisica, cosa che forse poteva essere evitata. Ma ricordiamo che Ferragni sul corpo e su ciò che lo veste ha fondato un impero. Dunque, anzitutto ha fatto qualcosa di coerente con il suo brand. Inoltre, la nudità era una metafora: espongo con un disegno sul vestito la mia nudità fisica, cosi come espongo con le parole la mia nudità psicologica. Infine, recitare il monologo con quel nudo così ben disegnato da sembrare vero è stato sicuramente più difficile per lei di quanto sarebbe stato farlo con qualunque altro abito: sentirla parlare, vedere l’emozione sul suo viso, capire che tratteneva a stento le lacrime è stato ancora più toccante – a tratti inquietante – proprio perché sembrava nuda. Nuda di fronte a milioni di spettatori e spettatrici, molti dei quali pronti a mangiarsela viva. Chapeau.

5. Inutile (o contraddittorio) fare monologhi femministi in un contenitore in cui vige il patriarcato. Questa critica è stata mossa non solo a Ferragni ma a tutte le donne che, anche nelle edizioni passate di Sanremo, sono state invitate a fare quelli che sono stati definiti “sermoni” o “sproloqui” femministi. A Sanremo dominano da sempre gli uomini (direttori, conduttori, cantanti, musicisti, autori eccetera), per cui le “gentili ospiti” restano vallette, o comunque sottomesse agli uomini, anche quando fanno discorsi femministi. Vero. Talmente vero che – forse – è stata una delle ragioni per cui Ferragni ci ha messo qualche anno ad accettare l’invito di Amadeus. Ma allora, ha fatto bene o male ad andarci?

Per il suo brand, faranno loro i conti. Per le donne e i loro problemi di fragilità economica, sociale, psicologica, fisica, in un’Italia che resta tenacemente maschilista mentre molti altri Paesi in Europa e nel mondo fanno passi avanti nella parità di genere, ha fatto benissimo. Sono utili in questa direzione le stesse polemiche di questi giorni, dai giornali ai social, dai bar alle università. Nel bene o nel male, purché se ne parli, diceva Oscar Wilde. Il che oggi non vale più per gli argomenti più abusati. Ma dei problemi delle donne, purtroppo, in Italia non si parla abbastanza. Né si fa abbastanza.

Perciò non solo una, ma 10, 100, 1000 Ferragni.

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