di Roberto Del Balzo
Ci siamo: chi per lavoro, chi per sfizio, chi per ossessioni patologiche, insomma non c’è nessuno che non abbia passato la settimana a commentare, biasimare e vivisezionare il Festival di Sanremo. Vecchi critici fanno colare ancora inchiostro denso come il loro sangue ripetendo ogni anno le stesse cose e allargando le braccia per poi farle cadere. Influencer, blogger e regine della giuria regalano pillole di psicologia e veleno giusto per rimanere nei confini di quella identità che faticosamente si sono costruiti negli anni. Siti di “cellule mediatiche che si muovono nello spazio tempo”, quei club di gente dall’intelletto superiore lasciano sul percorso briciole del loro pensiero con tonnellate di verbo sulla rinascita del Festival.
Si muovono tutti insieme nello stesso momento in un rito pavloviano che li rende tutti uguali. Pezzi (giornalistici) usciti da una catena di montaggio che dura il tempo di una settimana: “un pezzo, un culo, un pezzo un culo…” e via così. Non c’è peggior cosa del conformismo dell’anticonformismo come quel povero comico che fa il duro sul palco più profumato del mondo.
Come i flussi di coscienza che non vedevano l’ora di uscire da qualche corpo per inondare di retorica spicciola Chiara Ferragni e qualsiasi donna abbia prestato se stessa (in cambio di lauti compensi) a recitare una parte sgangherata in questa recita. C’è il Festival e in tanti si sentono migliori di chi vi partecipa, in tanti hanno qualcosa da dire anche quando non c’è nulla da dire. Il Festival è per loro: influencer, blogger, critici e regine della giuria. Una settimana di luce riflessa, debole. Spenta.