Ci si affanna così tanto per vedere chi vince il Festival di Sanremo, che si smarrisce lo sconfitto. E dire che quest’anno a perdere non è stato uno qualunque, e si è trattato di una sconfitta sonora e preoccupante. Non mi riferisco certamente a uno degli artisti in gara, né in generale ai protagonisti che hanno organizzato o condotto il grande carrozzone del varietà italico.
A far registrare una sconfitta sonora e cocente sono state le due realtà forse più in crisi nel nostro paese sciagurato: la politica e la cultura.
L’ultima non è neppure pervenuta, in un festival che si è definitivamente trasformato nel Grande fratello vip di casa Rai.
La sconfitta della politica è stata invece più sonora, e lo vediamo in questi giorni di polemiche seguite alla kermesse sulla canzone italiana. Una sconfitta generale, volendo utilizzare le tradizionali categorie della galassia politica.
La sinistra ne esce annichilita, costretta ormai a delegare a improvvisati intellettuali dello show business i messaggi ideologici (di natura esclusivamente sessuale ed egoriferita) che dovrebbero catalizzare il consenso di chi si riconosce nel fronte progressista. Il passaggio da Marx e Rosa Luxemburg a Fedez e Ferragni è a dir poco traumatico. Dimenticata la questione sociale e la tutela delle classi sociali lavoratrici (nonché più deboli), ci si concentra ormai esclusivamente sulle “fragilità” individuali (maternità, femminilità, individualità, fluidità di genere), per giunta trattate con un registro comunicativo spettacolare che finisce col ridurre a un minestrone finto buonista questioni comunque importanti.
L’impressione che il tutto venga trattato con le modalità di una minoranza ricca e annoiata è fortissimo. Basti pensare al messaggio chiave della Ferragni (“sentiti libera”), del tutto dimentico del fatto che la libertà intesa in senso sociale (e non egoriferito) non è uno stato d’animo (sentirsi liberi) bensì una conquista da ottenersi con studio, organizzazione e lotte sociali.
Quello che la sinistra o sedicente tale ha smesso di fare ormai da decenni, abbandonando i deboli alla macelleria sociale del neoliberismo e condannandosi a farsi rappresentare da artisti che trovo inaffidabili e interessati soltanto allo spettacolo e al proprio personaggio (esempi: Asia Argento qualche anno fa, Fedez, Ferragni e compagnia dei narcisisti di successo quest’oggi). Non mi stancherò mai di dirlo: anche le battaglie più nobili e sacrosante sono destinate alla sconfitta se combattute con le armi sbagliate. Se la politica si lascia fagocitare dallo spettacolo, ogni lotta sociale o per i diritti civili diventerà farsa, e soprattutto perderà di credibilità di fronte alla maggioranza del popolo.
Né le cose vanno meglio dall’altra parte, quella della destra al governo. Non ho ben capito se fingono o fanno sul serio, ma concentrarsi sul teatrino sanremese per denunciare “narrazioni sociali da modificare”, scandali diseducativi e quant’altro, li condanna all’impressione di lasciarsi dettare anche loro l’agenda politica dal carrozzone spettacolare. Con in più l’aggravante della censura, perché ancora non hanno imparato che l’arte deve stupire, colpire e perfino scandalizzare, anche quella più infima ed enfatica, come in questo caso, perché chiamata a nascondere il vuoto culturale che la sostiene.
Salvini che dichiara la necessità di “aprire una riflessione sulla Rai” fornisce chiaramente l’immagine del governante che si sforza di riflettere soltanto quando gli artisti del proprio ego decidono di provocare con forme di dubbio gusto ma comunque spettacolari, mentre nessuno pare riflettere con convinzione sul fatto che il costo della vita è sempre più insostenibile, che aumentano le persone in difficoltà, che i diritti e le tutele della gente che lavora vengono ignorati o soppressi. Guy Debord scriveva di un mondo capovolto, quello in cui il vero diventa un momento del falso e viceversa. È proprio questo il punto, svelato dall’ultimo Festival di Sanremo: la finzione spettacolare si è impossessata della realtà politica, fino a nasconderla del tutto e trasformarla in farsa.
Il problema non è che Sanremo è Sanremo, come recita il celebre slogan, ma che l’Italia è diventata Sanremo.