Si è celebrato, nei giorni scorsi, il quarantaquattresimo anniversario della vittoria della rivoluzione islamica da cui sarebbe nata poco dopo la Repubblica islamica iraniana. Amnesty International, con l’occasione, ha ricordato che da allora si sono susseguiti oltre quattro decenni di omicidi di massa e impunità, con un filo conduttore che collega i massacri delle prigioni del 1988 e le uccisioni di centinaia di manifestanti nelle proteste iniziate lo scorso settembre: la narrazione negazionista.

Alla fine degli anni Ottanta diplomatici e autorità di governo dell’Iran si prodigarono per liquidare le denunce delle esecuzioni di massa del 1988 nelle prigioni come “propaganda di gruppi di opposizione” sostenendo che le uccisioni erano avvenute nel contesto di un’incursione armata dell’Organizzazione dei mojahedin del popolo, un gruppo armato di opposizione che aveva le sue basi in Iraq.

Amnesty International ha raccolto prove sul coinvolgimento, in quella copertura, di vari rappresentanti diplomatici e autorità dell’epoca, tra i quali (tra parentesi il ruolo svolto all’epoca): Mohammad Jafar Mahallati (rappresentante permanente presso le Nazioni Unite a New York), Sirou Nasseri (rappresentante permanente presso le Nazioni Unite a Ginevra), Mohammad Ali Mousavi (incaricato d’affari a Ottawa, Canada), Mohammad Mehdi Akhoundzadeh Basti (incaricato d’affari a Londra, Regno Unito), Abdolah Nouri (ministro dell’Interno), Ali Akbar Velayati (ministro degli Esteri), Hossein Lavasani e Manouchehr Mottaki (viceministri degli Esteri).

In qualità di rappresentante permanente presso le Nazioni Unite in quel periodo, Mahallati ebbe un ruolo particolarmente attivo nello screditare le denunce dell’allora Relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani in Iran così come quelle di Amnesty International e nell’indebolire la reazione delle Nazioni Unite. Nel novembre 1988, in un incontro col Relatore speciale, negò che ci fossero state esecuzioni di massa e sostenne in modo falso che “molte uccisioni avevano avuto luogo durante combattimenti”.

Un mese dopo definì “ingiusta” una risoluzione delle Nazioni Unite che esprimeva preoccupazione per le esecuzioni nelle prigioni e affermò che la principale fonte di quelle “informazioni false” era “un’organizzazione terrorista basata in Iraq”. Secondo fonti giornalistiche dell’epoca nelle settimane precedenti l’adozione della risoluzione, Mahallati cercò di farla ritirare o di “annacquarla”. Condizionò la cooperazione del suo paese con le Nazioni Unite all’eliminazione, dal testo, di frasi critiche sulle violazioni dei diritti umani in Iran – comprese le esecuzioni di massa – e propose l’adozione di “un testo più morbido che avrebbe semplicemente espresso apprezzamento per la decisione dell’Iran di collaborare con la Commissione delle Nazioni Unite sui diritti umani”.

Sempre Mahallati, il 28 febbraio 1989, scrisse una lettera ad Amnesty International nella quale, ancora una volta, negava “l’esistenza di qualsiasi esecuzione politica” e descriveva le vittime come “individui che, come da loro stesso ammesso, avevano lanciato un’offensiva contro l’Iran uccidendo 40.000 iraniani”. Le attuali autorità iraniane stanno ricorrendo a tattiche simili per screditare la nuova generazione di manifestanti e dissidenti qualificandoli come “teppisti” negando ogni coinvolgimento in centinaia di uccisioni illegali e resistendo alle richieste di indagini internazionali e di accertamento delle responsabilità.

Alla vigilia della sessione speciale di novembre del Consiglio Onu dei diritti umani sulla repressione mortale delle proteste, i funzionari iraniani a Ginevra hanno distribuito lunghi documenti in cui si attribuivano le uccisioni dei manifestanti a “terroristi assoldati”, “suicidi” o “incidenti” contestando, addirittura, la morte di alcune vittime.

Nello stesso periodo Amir Saeed Iravani, rappresentante permanente presso le Nazioni Unite a New York, chiedeva agli stati di astenersi dall’appoggiare una riunione informale dei membri del Consiglio di sicurezza denunciando “una maliziosa campagna di disinformazione” ai danni dell’Iran.

Ignorando numerosissime prove sulle uccisioni illegali da parte delle forze di sicurezza di centinaia di manifestanti e anche di persone che stavano solo assistendo alle proteste, bambini compresi, Iravani affermava che “il diritto alla libera espressione e di manifestazione pacifica è riconosciuto e assicurato dalla Costituzione della Repubblica islamica e il godimento del nostro popolo di tale diritto è stato sempre sostenuto dal governo”.

Da decenni, dunque, il governo iraniano e i suoi rappresentanti diplomatici orchestrano campagne di diniego e disinformazione per trarre in inganno la comunità internazionale e derubare le persone direttamente colpite e la società nel suo complesso del diritto alla verità.

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