Dopo aver prorogato Opzione donna con talmente tanti paletti da escludere la stragrande maggioranza delle possibili beneficiarie, il governo tenta di correre ai ripari. Durante l’incontro del sottosegretario Claudio Durigon con i sindacati è emersa l’ipotesi di estendere i quattro mesi di anticipo per ogni figlio (già previsti dalla riforma Dini solo per chi è nel contributivo pieno) a tutte le forme pensionistiche per le donne. Il costo sarebbe di 700 milioni di euro: sono in corso valutazioni tra tecnici del Lavoro e Mef. Per i giovani dalle carriere discontinue, invece, il ragionamento imbastito al tavolo di confronto sarebbe orientato a prevedere un’integrazione al minimo in caso di pensioni basse al termine della carriera lavorativa (per chi ha contributi solo dopo il 1995). Il segretario confederale della Cisl, Ignazio Ganga, ha parlato anche della possibilità “di eliminare o ridurre in modo sostanziale il vincolo minimo di 1,5 volte l’assegno sociale per accedere alla pensione di vecchiaia nel sistema contributivo, che attualmente limita in maniera sostanziale gli accessi al pensionamento, condizionando in particolare le donne e coloro i quali hanno avuto carriere frammentate”.
Per il segretario confederale della Cgil, Christian Ferrari, l’incontro è stato “assolutamente interlocutorio” e non ha dato risposte “a partire dal ripristino delle condizioni per l’accesso a Opzione donna. Un segnale che non fa ben sperare sulla credibilità e la serietà di un percorso che avrebbe ben altra ambizione”. I limiti con cui Opzione donna è stata rinnovata in legge di Bilancio, attacca il patronato Inac Cia, hanno “frenato la quasi totalità della platea di lavoratrici pronte ad uscire anticipatamente dal mondo del lavoro”: sono circa 40mila le lavoratrici “esodate”, a fronte di 2.500 donne che nel 2023 rispecchiano i requisiti per la nuova pensione anticipata. Alle quali in compenso viene “imposta la rinuncia al 30 per cento dell’assegno contributivo“. “Dall’apertura dello sportello per la presentazione delle domande predisposto dall’Inps registriamo una sostanziale assenza di possibili beneficiarie”, dice il presidente del patronato Alessandro Mastrocinque. L’associazione Donne in Campo sottolinea anche un paradosso: “Consentire alle donne di anticipare l’uscita pensionistica riconoscendone l’importante ruolo di caregiver per poi tagliare l’assegno del 30 per cento è un atteggiamento gravemente vessatorio nei confronti di una parte del Paese indispensabile per la tenuta sociale”, commenta la presidente Pina Terenzi. “Così come si è rivelata discriminante tra chi ha figli e chi no. È ora di rivedere questa misura e renderla praticabile per tutte le donne”.
Mentre fino alla fine del 2022 le donne potevano andare in pensione a 58 anni, indipendentemente dal numero dei figli, grazie al ricalcolo contributivo, oggi in base alla nuova Opzione donna possono andare in pensione prima dei 67 anni le donne che assistono il coniuge o un parente di primo grado convivente con handicap grave (invalidità almeno al 74%) oppure lavoratrici licenziate o dipendenti da imprese per le quali è attivo un tavolo di confronto per la gestione della crisi aziendale presso la struttura per la crisi d’impresa. Oltre a questi requisiti bisogna avere almeno 35 anni di contributi maturati. A quel punto si può andare in pensione anticipata a 60 anni. L’età si abbassa per chi ha un figlio (59 anni) o due (58). Per tutte le donne coinvolte, poi, la pensione viene ricalcolata con il sistema contributivo e il taglio dell’assegno, rispetto a quello misto contributivo-retributivo, può arrivare anche al 30%. Il Movimento 5 Stelle aveva presentato un emendamento al decreto Milleproroghe per ripristinare Opzione Donna nella sua versione originale: non è passato.