Com’è potuto accadere che un uomo, già condannato all’ergastolo e ritenuto esponente di un clan legato a Cosa nostra, abbia ucciso due donne nello stesso paese da cui partì la sua carriera criminale? In attesa che si faccia luce sul movente che, sabato scorso, ha spinto Salvatore La Motta a sparare contro Carmelina Marino e Santa Castorina, è questa la domanda che in tanti si pongono. Non solo a Riposto, la cittadina del Catanese affacciata sul mar Jonio in cui sono avvenuti i fatti, ma anche nel resto del Paese. Il duplice assassinio, a cui ha fatto seguito il suicidio dell’uomo, ha avuto ampia eco per l’efferatezza delle aggressioni – entrambe in luoghi affollati e in piena mattinata – ma anche per il profilo dell’omicida: La Motta, 63 anni, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta era stato al centro di cruenti fatti di cronaca intrecciati con le faide che, all’epoca, insanguinavano l’area jonica della Sicilia. Due delitti, uno dei quali compiuto in prima persona, gli costarono una condanna all’ergastolo e un’altra a trent’anni di reclusione, ma non gli hanno impedito di accedere, negli ultimi tempi, a forme di detenzione alternative e a premialità per buona condotta. Opportunità, queste, a cui di solito non possono ambire gli ergastolani condannati per reati in materia di terrorismo, eversione e, appunto, associazione mafiosa.

La revisione della normativa sull’ergastolo ostativo – disposta di recente dal governo Meloni in seguito alle sollecitazioni arrivate prima dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e poi dalla Corte costituzionale – è stato al centro del dibattito negli ultimi mesi. Tuttavia, nel caso di La Motta il tema non parrebbe essere stato dirimente. Il 63enne, infatti, non è mai stato sottoposto all’ergastolo ostativo e il motivo va rintracciato negli esiti giudiziari del processo che seguì al primo omicidio commesso dall’uomo.

Era l’estate del 1989, quando La Motta partì da Riposto per andare di sera ad Aci Catena – centro distante una ventina di chilometri – e aprire il fuoco contro un’auto con a bordo tre uomini, uccidendo Cosimo Torre. Per la procura di Catania, che si basò anche sulla testimonianza di diversi collaboratori di giustizia, il delitto era da inquadrare all’interno della guerra di mafia tra la famiglia Santapaola-Ercolano e i Ferrera, meglio conosciuti come Cavadduzzi. “Sì, io sono di fiducia”, è la frase che La Motta avrebbe pronunciato successivamente al delitto. La ricostruzione è contenuta in un verbale di interrogatorio del collaboratore Salvatore Palazzolo, risalente all’ottobre 1997. Ad affidare a La Motta l’incarico di assassinare Torre, secondo le accuse, era stato Sebastiano Sciuto, allora capomafia dei Santapaola nella zona dell’Acese. “Questa versione resse per buona parte del processo – racconta chi seguì da vicino la vicenda giudiziaria – ma le cose cambiarono quando il boss Sciuto venne assolto dall’accusa di essere il mandante. A quel punto non fu più possibile inserire l’omicidio nella cornice mafiosa”. Il processo per la Motta arrivò al capolinea nel 2006, con la condanna all’ergastolo disposta dalla Corte d’assise d’appello di Catania, chiamata dalla Cassazione a tornare a esprimersi dopo che in un primo tempo l’uomo era stato assolto. Da quel momento per La Motta iniziò il fine pena mai, senza però il fardello dell’ostativo.

I guai giudiziari, però, non finirono. La Motta, infatti, ricevette un’altra condanna a trent’anni per un omicidio compiuto – a febbraio del ’92 – nel territorio di Giarre, centro confinante con Riposto. A perdere la vita, in quel caso, fu Leonardo Campo. L’uomo venne freddato da due uomini che viaggiavano su un ciclomotore, mentre si trovava davanti a un bar. A tirare in ballo La Motta per questo delitto fu ancora una volta il collaboratore Palazzolo. “Ci appoggiavamo da Turi La Motta, che aveva quel pezzo di terreno sempre a Riposto dove noi mettevamo la moto per poi prenderla al momento opportuno per compiere l’azione”, si legge nel verbale di interrogatorio. Per questi fatti, nei confronti di La Motta venne riconosciuta anche l’associazione mafiosa.

Ciò è fondamentale per ragionare sui motivi che hanno consentito all’uomo di uscire dal carcere. La Motta, dunque, ha goduto della semilibertà a partire dal gennaio 2020, quando il tribunale di sorveglianza di Sassari si è pronunciato a favore del regime alternativo che consente di trascorrere la giornata fuori dal carcere per poi farvi rientro la sera. Tale obbligo, tuttavia, con lo scoppio della pandemia è venuto meno in seguito al timore che il virus potesse arrivare entrare nei penitenziari, portato dall’esterno. “Si è trattato di una misura straordinaria che è stata in vigore fino all’inizio di quest’anno – commenta Antonio Cristofero Alessi, legale dell’uomo –. A goderne è stato anche lui, trascorrendo le notti in casa dai parenti. La Motta, però, ha ricevuto anche dei permessi premio per buona condotta. Proprio il giorno dei delitti – continua Alessi – scadeva l’ultimo permesso che aveva ricevuto”. Nel caso dei condannati per reati gravi, le premialità per buona condotta sono vincolate alla valutazione dell’esistenza di vincoli con la criminalità organizzata. Una situazione che nel caso di La Motta in passato era stata accertata, ma che andava attualizzata.

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