La domanda fa capolino sui media con ciclica puntualità. Possibile, ci si chiede, che l’omosessualità nel calcio rappresenti ancora un tabù? È un quesito ipocrita che trova la sua spiegazione nel modo stesso in cui la questione viene trattata. Tanto da chi fa parte di quel mondo quanto da chi quel mondo lo racconta. Perché quello del pallone è un ambiente chiuso e stereotipato, un ecosistema che ha imparato a eternare un cliché: il calciatore cacciatore di veline, impalmatore di modelle, collezionista di avventure. Un machismo ostentato che non sopporta eccezioni. Anche perché è così che il calcio è stato narrato per anni. Con la squadra che vince che “mostra gli attributi” e quella perdente che diventa “femmina”. Un ambiente così tossico dove rivelare il proprio orientamento sessuale viene scambiato per un segno di “debolezza”. Dichiararsi omosessuale vuol dire esporsi. Alle prese in giro dei compagni. Ai cori dei tifosi. Ai rifiuti degli sponsor. È così ovunque, anche se in Italia la questione racconta quasi un secolo di immobilismo.
Perché l’incipit di questa storia a tinte cupe è stato scritto addirittura nel 1934. Allora Carlo Carcano è una figura quasi totemica del calcio italiano. Insieme a Vittorio Pozzo ha forgiato quello che passerà alla storia come il Metodo. Ma ha anche guidato la Juventus alla vittoria di quattro scudetti consecutivi e come allenatore in seconda ha accompagnato la Nazionale alla vittoria del Mondiale del 1934. La sua gloria va in frantumi il 10 dicembre dello stesso anno. Edoardo Agnelli lo convoca e gli comunica l’esonero con effetto immediato. La sua relazione con un giovane calciatore sudamericano era stata scoperta. E l’Italia fascista non aveva esattamente in simpatia gli omosessuali. La squadra, affidata a Carlo Bigatto e Benedetto Gola, vince il suo quinto titolo consecutivo. Carcano viene invece rimosso dalla memoria collettiva.
Dopo quasi novanta anni il rapporto del calcio italiano con l’omosessualità è ancora discutibile. Perché si parla spesso di omofobia, ma sempre usando parole sbagliate, tagliando con l’accetta concetti delicati. E a forza di uscite grottesche, la faccenda ha assunto i contorni di una barzelletta che non fa ridere nessuno. Il 19 maggio del 2007 la Juventus asfalta l’Arezzo e viene promosso in Serie A. Subito dopo il fischio finale i giocatori indossano una maglia rosa con la scritta: “B…stA!”. Qualche minuto più tardi l’allenatore Didier Deschamps si presenta davanti alle telecamere e dice: “La maglia non mi piace perché il rosa in Francia è il colore dei gay”. Ma la letteratura al contrario nel nostro calcio è così tristemente sterminata che potrebbe dare vita a dei sottogeneri. Per qualcuno, infatti, gli omosessuali sarebbero addirittura inidonei a giocare a pallone. Nel 2005 Gianni Rivera dice al Corriera della Sera: “È chiaro che sono io a sbagliarmi, visto che invece i gay nel calcio ci sono e immagino vivano i loro problemi. A me sembra difficile pensare che scelgano un gioco così maschio, dai contrasti così decisi”. Per Luciano Moggi, invece, gli omosessuali avrebbero potuto creare problemi all’interno dello spogliatoio. Nel vero senso della parola: “Nel calcio non ci sono gay, non so se i giocatori siano contrari, io sicuramente lo sono – dice a Klaus Davi nel 2008 – Nelle società dove sono stato io non ne ho mai avuti. Io sono all’antica ma conosco l’ambiente del calcio e al suo interno non può vivere uno che è gay. Un omosessuale non può fare il mestiere del calciatore. Il calcio non è fatto per loro, si sta nudi sotto la doccia”. È un’immagine che spunta fuori qualche anno più tardi nelle parole di Damiano Tommasi, centrocampista che a Roma era soprannominato “Anima Candida” e poi figura apicale dell’Assocalciatori: “Sconsiglio l’outing ai giocatori omosessuali, certo. In una squadra di calcio si condivide un’intimità, non so in quali altri mestieri si faccia la doccia tutti assieme. Non considero il mio un messaggio omertoso, ma semplicemente opportuno. (…) Un outing potrebbe rivelarsi un boomerang, si verrebbe ridotti a una macchietta”. E pensare che nel 1998 Daniela Fini, accesa tifosa laziale e moglie dell’allora numero uno di Alleanza Nazionale, si era lasciata scappare a Tmc: “Un calciatore, se ostentatamente omosessuale, non potrebbe giocare, non lo lascerebbero giocare”.
Nell’anno del Signore 2008, quindi con il Medioevo già alle spalle da qualche secolo, alcuni giocatori di primo piano si schierano apertamente contro i gay. E lo fanno per motivi che definiscono “culturali”. Un ossimoro che porta Gennaro Gattuso a parlare apertamente dei matrimoni omosessuali: “Anche se nel 2008 dicono che ognuno può fare quel che vuole per me non esiste, in chiesa. Sono uno che crede alla famiglia da quando sono bambino, e per una persona che crede nella sua religione mi sembrano una cosa strana i matrimoni gay. Mi scandalizza”. Nicola Legrottaglie, uno che dopo essersi convertito al cristianesimo nel 2006 si fa chiamare Fratello Nicola, aggiunge poco dopo: “La Bibbia dice chiaramente che l’omosessualità è peccato”.
Per ragioni esattamente contrarie a quelle che possono essere considerate “culturali”, Antonio Cassano si è guadagnato le copertine dei giornali nel giugno del 2012. Rispondendo a un’intervista di Cecchi Paone, che sosteneva la presenza di “almeno due omosessuali” nell’Italia di Prandelli, Fantantonio si lascia un po’ andare. “Ci sono froci in Nazionale? Se penso quello che dico sai che cosa viene fuori – assicura – sono froci, problemi loro, mi auguro che non ci siano veramente in Nazionale”. È una frase così feroce che fa pensare a Ninna Nanna di Chuck Palahniuk, dove l’autore ripete insistentemente: “Ossa e bastoni possono romperti le ossa, ma stai attento a quelle cazzo di parole”. Lo show di Cassano si porta dietro una infinità di prese di posizione. Carolina Morace, qualcosa in più di una semplice icona per il nostro calcio femminile, abbraccia le tesi del barese. “Io sto con Cassano – dice al settimanale A – Quello che rimesta nel torbido è Cecchi Paone: strumentalizza questi argomenti. Nel calcio il problema non è l’omofobia, è più grave la discriminazione nel mondo femminile. Ora in Nazionale il c.t. è Cabrini“. Poco più tardi Francesco Totti va in tilt: “Rispetto l’omofobia”, dice. Solo che voleva dire: “Rispetto l’omosessualità”. Pochi mesi prima, ad aprile, il cittì della Nazionale Prandelli aveva chiesto ai suoi giocatori di fare coming out. L’idea era stata pubblicamente bocciata da Totò Di Natale, che aveva affiato il suo pensiero a Chi: “Stimo il ct e gli sono affezionato, ma non sono d’ accordo con lui. Infrangere questo tabù nel nostro sport è un’ impresa difficile, quasi disperata. Sono contrario all’ipotesi di rendere pubblica una scelta così importante. Come reagirebbero i tifosi?”. Gianni Rivera, uno particolarmente attivo nel fornire la sua opinione sull’argomento, si era accodato: “Non capisco a cosa serva dirlo in giro, mica gli eterosessuali lo vanno a dire in pubblico”.
È una frase talmente fuori fuoco da diventare spiazzante. Ma che si inserisce perfettamente in un contesto dove a volte neanche ci si accorge delle parole che vengono scelte. Così ecco che Tavecchio tuona: “I gay mi stiano lontani, io sono normalissimo”; poi Eziolino Capuano che assicura: “In campo devono andare gli uomini con le palle, non le checche”. L’effetto Checco Zalone è assicurato, anche se in questo caso è difficile sorridere. In alcuni casi, addirittura, la parola ‘gay’ viene utilizzato come un insulto da rivolgere a un avversario. È successo nel 2016 durante la sfida fra Inter e Napoli, quando Maurizio Sarri si rivolse a Roberto Mancini dandogli del ‘frocio’ e del ‘finocchio’. Piccolo dettaglio: due anni prima, quando allenava l’Empoli in B, Sarri commentò un’espulsione di un suo giocatore contro il Varese dicendo che “il calcio è diventato uno sport per froci” e che in Italia “si fischia molto più che in Inghilterra con interpretazioni da omosessuali”.
La tendenza, però, non riguarda solo l’Italia. Nel 2007 un giudice di San Paolo, in Brasile, è andato un po’ oltre nell’interpretazione della legge arrivando ad affermare che gli omosessuali non potevano giocare come professionisti, ma dovevano creare una loro lega parallela. Poco più tardi Eduardo Berrizzo, attuale ct del Cile, aveva lasciato l’Olympique Marsiglia dicendo che “nel calcio francese prolifera l’omosessualità” e che “la convivenza con tanti gay era fastidiosa”. I casi più clamorosi vengono dalla Germania. Nel 2012 il magazine Fluter aveva raccolto la testimonianza di un calciatore omosessuale che è voluto restare anonimo: “Sono costretto a recitare e nascondermi – aveva detto – è facile dire di fare outing quando non sei tu ad andare allo stadio il giorno dopo”. Thomas Hitzlsperger, invece, ci aveva messo la faccia. Ma solo a fine carriera. Aveva deciso di uscire allo scoperto e di annunciare al giornale Zeit la sua omossessualità: “Il cliché vuole che il calciatore sia virile, macho e l’omosessuale fragile e delicato – ha raccontato – Il mio soprannome, il “Martello” dimostra che non è così. È un tema che non viene preso sul serio. E poi c’è il problema degli sponsor: difficile trovarli dichiarandosi omosessuali”.
Il primo calciatore a parlare pubblicamente della propria omosessualità è stato Justin Fashanu, attaccante inglese di origini nigeriane che ha girato quasi tutta la Gran Bretagna, nel 1990. La sua storia, però, finì malissimo. Suo fratello John, l’idolo di Teo Teocoli a Mai Dire Gol, decise di tagliare i ponti con lui. E anche la comunità nera si schierò contro di lui, lamentando un “danno di immagine”. Justin visse da solo per qualche anno, in balia della disperazione. Poi si suicidò nel 1998, impiccandosi con un cavo elettrico dopo essere stato indagato per abusi su un ragazzo. Nel 2021 Josh Cavallo, centrocampista australiano dell’Adelaide United, ha deciso di fare coming out. Ma dopo una valanga di messaggi di sostegno e di complimenti, le cose sono peggiorate. Perché a ogni partita Josh viene insultato pesantemente dai tifosi avversari. È un collage che dà una risposta esaustiva al quesito di partenza. L’omosessualità sarà un tabù fino a quando esisteranno gli stereotipi, fino a quando il calcio verrà raccontato con certi termini. I pregiudizi sono ancora affilati. E sembrano sopravvivere al passare degli anni per quanto sono radicati fra i giocatori stessi, fra gli allenatori, fra i tifosi e fra le istituzioni. Il problema è che il calcio non è migliore o peggiore della società reale. È soltanto il suo specchio. Ora vedremo cosa accadrà dopo il coming out di Jakub Jankto.