Dopo il risultato delle elezioni regionali in Lombardia e Lazio, dovremmo aspettarci di tutto dai partiti che non hanno vinto, fuorché capricci, ripicche e piagnistei: sono atteggiamenti (talvolta spacciati per ragionamenti) cui assistiamo da anni; però, se finalmente si diradasse la nebbia egocentrica che sta avvolgendo la mente di tanti, si capirebbe, con chiarezza e sgomento, che non rappresentano nulla di utile e necessario per provare a rivincere. Tanto è vero che – negli schieramenti autolesionisti di reciproci avversari che costituiscono l’attuale opposizione (in Parlamento e nella maggior parte delle Regioni) – nessuno si aspettava di vincere, diciamocelo francamente. Però qualcuno si aspettava di battere e mortificare ulteriormente il Partito democratico, succhiandogli consensi ed energie; se lo aspettava sia recitando la parte dell’alleato di coalizione (come è capitato nel Lazio al sedicente Terzo Polo di Calenda e Renzi e in Lombardia al M5S di Conte), sia quando ha recitato la parte opposta.

La fissazione calendo-renziana e quella contiana, più o meno esplicitate, di dover punire il Pd a causa di un presunto peccato originale (che consiste nel fatto di essere il Pd) aveva qualcosa di patologico prima delle ultime due tornate elettorali; oggi, dopo la débâcle nella débâcle di Terzo Polo e Pentastellati, sta sconfinando in un fenomeno solo apparentemente contraddittorio: il narcisismo masochistico. Sia chiaro, il Partito democratico ha molto da farsi perdonare: basti citare il fatto che abbia unanimemente partorito, ai tempi di Renzi, il Jobs Act, una controriforma del diritto del lavoro e dei diritti dei lavoratori degna del peggior neo-liberismo; la retromarcia degli ultimi mesi è ancora un po’ deboluccia per sembrare un’autocritica in grado di sedare la diffidenza di tanti potenziali elettori di sinistra. Vedremo.

Tuttavia, nonostante il sempre più allarmante trionfo dell’astensionismo (6 cittadini maggiorenni su 10 sono rimasti a casa), il Partito democratico – forte di un retroterra politico che affonda le radici nel patrimonio ideale del PCI e della sinistra DC – in occasione di queste elezioni ha tenuto nei voti di lista e ha pure guadagnato rispetto alle ultime elezioni politiche: 21,82% in Lombardia, 20,25% nel Lazio. Pentastellati e terzopolisti sono invece scesi ai minimi termini. Ha ragione l’ormai ex segretario dei Dem, Enrico Letta, quando commenta: “Il centrodestra vince in entrambe le Regioni. Tuttavia, in un quadro politico per noi particolarmente complicato e con il vento chiaramente contro, il Pd ottiene un risultato più che significativo, dimostra il suo sforzo coalizionale e respinge la sfida di M5S e Terzo Polo. Il tentativo ripetuto di sostituirci come forza principale dell’opposizione non è riuscito”. Prosegue Letta: “L’Opa contro il Pd ha fatto male a chi l’ha tentata. Ci auguriamo che questo risultato dimostri finalmente a M5S e Terzo Polo che l’opposizione va fatta al governo e non al Pd. Il Pd rimane saldamente seconda forza politica e primo partito dell’opposizione”.

Piaccia o non piaccia, e al netto dei rodimenti di fegato, le cose stanno proprio come dice Letta. Tanto più se si considera che il Pd ha ottenuto questo risultato proprio nel momento in cui è senza guida (“Di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta”, direbbe un fan di Dante) e sta cercando un nuovo percorso politico che rompa col passato (renziano e non solo). Certo, restano le tante incazzature che certe scelte dei Dem hanno provocato pure (e forse soprattutto) tra chi ha qualche reminiscenza della (irriproducibile) sinistra dei tempi andati e dei suoi cavalli di battaglia. Però tutte le forze politiche di opposizione – pur senza rinunciare ai loro punti di vista – devono prendere atto di un fatto: va costruita una vera rete delle alleanze, basata sulla buona fede e il rispetto reciproco; serve poi una maggiore presenza sul territorio (che i Dem tutto sommato hanno, come dimostra il dibattito nei circoli sul futuro gruppo dirigente, ma gli altri no).

In questo contesto, il Pd, vista la relativa stabilità della sua base elettorale, è l’unico partito che può tenere in piedi una coalizione per vincere da qui a qualche anno, a livello nazionale come a livello locale; quindi occorre trovare un accordo con i Dem, senza simulare alleanze temporanee basate sul risentimento invece che sulla cooperazione. È una questione che devono porsi soprattutto i dirigenti e i militanti del M5S, visto che Renzi e Calenda, finché dureranno, sembrano aspirare soprattutto a un posticino da gregari nel giro del centrodestra.

Ovviamente al Partito democratico spetta darsi una leadership che rompa con le ambiguità del passato e torni ad avere un’identità chiara, nell’area della sinistra democratica. Però chi – al di fuori del centrodestra – spera ancora nel suo declino dovrebbe fare i conti con la realtà. Se non lo farà, l’opposizione in Italia continuerà ad evaporare per un bel po’ di tempo ad ogni scadenza elettorale, come la rugiada nei prati al sorgere del sole.

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