37,2% e 41,67%. Non sono le percentuali con cui le destre hanno vinto, ma le persone che hanno votato rispettivamente in Lazio e Lombardia.
Questo è il dato. Mai così scarsa la partecipazione alle urne. Il Lazio segna il record negativo della storia delle elezioni regionali. Se lo si guarda coi numeri dell’astensione è forse ancor più forte: 62,8% e 58,23% coloro che sono rimasti a casa.
Perché sempre meno persone vanno a votare, una tornata dietro l’altra? Lasciamo da parte le destre vittoriose, che dell’astensione non vogliono accorgersene e il centro-sinistra che ogni volta pare caduto da un pero. Come se la scarsissima affluenza fosse eccezione e non, invece, anello di un processo di più lunga durata: la crisi delle democrazie rappresentative.
Non è mera questione delle sigle che si sono presentate a questa tornata. Né tantomeno delle qualità individuali dei candidati e delle candidate alla presidenza. C’è una profonda sfiducia. Quasi totale in alcuni settori, sempre più ampi.
È la sfiducia nei confronti di un sistema – e non solo di questo o quell’altro volto – che puntualmente fallisce nel dare risposte ai bisogni popolari. Anzi, c’è di più: è un sistema che pare essere appositamente costruito contro la maggioranza e nel solo ed esclusivo interesse di una minoranza di privilegiati che continua a detenere le leve del potere. Perfino a prescindere dal rito delle urne. Perché l’eventuale pendolo tra destra-centro-sinistra è mero cambio dei volti al governo, ma non comporta alcun cambio nelle condizioni materiali, culturali, morali e nelle prospettive di vita di strati sempre più ampi della popolazione.
La politica non è qualcosa di astratto. Men che meno sfida retorica tra bande di oratori. La politica è qualcosa di tangibile, che “si mangia”. Perché dovrebbe servire a risolvere i problemi che affliggono milioni di persone. Su questo Romano Prodi si è interrogato dalle colonne de La Stampa, partendo dalla affermazione del presidente cinese Xi Jinping: “Tutto il mondo ci guarderà perché noi risolviamo i problemi e voi no!”. Ecco, nell’esperienza di tante e tanti non esiste alcuna capacità o tentativo di risoluzione dei problemi della gente comune e, invece, la politica diviene mero strumento di autopromozione individuale e preservazione di odiosi privilegi di settori striminziti della società.
Stanno crollando come castelli di sabbia le grandi narrazioni che ancora funzionavano prima della crisi multipla che ci troviamo ad affrontare. La distanza tra i discorsi dei politici e la vita quotidiana di chi sgobba e fatica si è fatta siderale. L’ascensore sociale individuale si è rotto irrimediabilmente e “volere è potere” – malgrado Chiara Ferragni a Sanremo – appare oggi una favoletta smentita dalle vite di milioni che, pur sudando, non solo non riescono ad avanzare, ma fanno fatica a conservare le condizioni conquistate dai loro padri e dalle loro madri.
L’altissimo tasso di astensione è espressione di tutto questo e molto di più. È la risposta della maggioranza a classi dominanti che si stanno macchiando del più atroce dei crimini: lo “speranzicidio”. Giorno dopo giorno stanno ammazzando la speranza nel cambiamento, nella transizione a un futuro diverso. È la risposta di chi, rifiutato dalla politica, rifiuta la politica.
Non unirò la mia voce al coro di chi parla di pericolo democratico. Né piangerò per l’ulteriore riprova della crisi della democrazia rappresentativa. Ma un problema enorme c’è e va riconosciuto: il rifiuto di partecipare al rito elettorale non si accompagna a una maggior partecipazione sociale e politica a 360 gradi. Anzi, il calo di partecipazione è complessivo: nelle urne, in politica, nel sociale.
È questo che ci interroga. Ed è qui che dobbiamo intervenire. Perché la politica rimane l’unica arma nelle mani di chi non ha potere, di chi non ha conoscenze, di chi è figlio di nessuno. L’obiettivo non è riportare alle urne gli elettori – come sentirete dire ai politici di ogni schieramento – ma costruire una democrazia fondata sul protagonismo e sulla partecipazione popolare.
Operazione impossibile? La storia ci dice tutt’altro. Basti guardare all’irruzione sulla scena dei popoli dell’America Latina, esclusi dalla Storia con la “S” maiuscola a suon di dittature militari prima e diktat neoliberisti poi e rientrati non improvvisamente (come potrebbe apparire agli occhi di un osservatore distratto), ma grazie a un paziente lavoro quotidiano che ha poi saputo cogliere l’occasione quando si è presentata una finestra di possibilità.