Nel tardo pomeriggio di San Valentino, a Milano, si poteva notare una strana coppia parlottare fitto nell’atrio della Triennale, dove qualche decina di spettatori erano già in fila per scendere a Teatro. Alle 19.30 sarebbe cominciato lo spettacolo Arca ostinata di Nino Laisné e Daniel Zapico, sofisticata e meravigliosa proposta di ibridazioni tra musica antica, chimere barocche e imprevedibile contemporaneità. E in qualche modo si presentava come una curiosa ibridazione, politico-culturale, anche la strana coppia coi vestiti grigi e le chiome ormai in gran parte argentee che s’aggirava conversando: il presidente di Triennale Milano, nonché celeberrimo architetto di boschi verticali, Stefano Boeri, e il nuovo numero del Maxxi di Roma, il giornalista Alessandro Giuli, conosciuto anche dal pubblico televisivo come il più garbato opinionista meloniano in circolazione.
Non era certo una semplice visita di cortesia, quella di Giuli a Boeri, ed è probabile che le due istituzioni museali contemporanee più vivaci delle due capitali d’Italia collaboreranno presto in qualche grande progetto. Sarà quel che sarà, ma è parso un incontro significativo quello tra due presidenti così diversi per formazione e indirizzi, anche se onestamente a farci caso può aver inciso quell’aura misteriosa che ha incantato la platea della Triennale Teatro, con i suoni della ‘tiorba’ barocca, un grande liuto variamente pizzicato, per l’occasione, con un mix che andava dalla Toccata celestiale di Michelagnolo Galilei (il fratello di Galileo) alla melanconia del nuovo fado di Carlos Peredes, dal Seicento francese all’improvvisazione su I want you dei Beatles, dalla popolare Petenera Huasteca a una sorta di passacaglia contemporanea di Zapico stesso.
Per la cronaca, Arca ostinata era uno dei primi appuntamenti del bel festival Fog che Triennale Teatro organizza ogni anno portando qualche sana ventata internazionale e diversa sui palcoscenici milanesi.
Ecco la questione fondamentale della cultura pubblica, ieri come oggi, sta proprio qui, nell’ibridazione e nell’imprevedibilità. E questo nonostante invece si sia trasformata, in modo particolare dopo il delirante bla-bla intorno al Festival di Sanremo, in una sorta di folle guerra di bandiere. Sembra che a volte la nuova destra al potere, dichiarando oltretutto di voler finalmente rappresentare una presunta propria cultura finora emarginata, si lasci facilmente andare al semplice ostracismo generalizzato: passi che non vadano bene Fedez o Chiara Ferragni, ma è impensabile che tutti i manager culturali di provenienza internazionale, nonostante il carico d’esperienza e i risultati, siano da liquidare tout court, alla Scala come agli Uffizi, solo per far posto a non si quali ‘italiani’.
In questi giorni stiamo addirittura assistendo a una sceneggiata sui generis intorno al Salone del Libro di Torino, con il primo risultato di far rinunciare alla direzione uno dei nostri scrittori più considerati, Paolo Giordano, solo perché si è dichiarato, in più occasioni pubbliche, ostile alla nuova maggioranza politica e abbia indossato, per giunta, una nuova casacca ‘verde’ con il nuovo libro Tanzania, che peraltro parte dal racconto tutt’altro che riverente della sessione parigina degli accordi sul clima.
Dopo aver accusato la sinistra di essere sempre e solo ‘anti’, adesso sembra venuto il momento dei no di destra, con una sorta di paradossale inversione dei ruoli. ‘Codesto solo oggi possiamo dirti,/ciò che non siamo, ciò che non vogliamo’. E’ una splendida chiusa di Eugenio Montale di una delle più celebri poesie di Ossi di seppia, raccolta stampata nel 1925 (a dire il vero Non chiederci la parola è datata 1923). E non è che cent’anni dopo può diventare il ritornello della politica culturale di una nuova maggioranza: non siamo come Giordano o Amadeus e nemmeno come il tale sovrintendente e non vogliamo quelli di sinistra, quelli che si baciano in bocca tra uomini, quelli che hanno cognomi stranieri, quelli che si dichiarano ambientalisti, quelli che anche solo storcono il naso inquietati dalla fiamma tricolore che arde ancora sotto il simbolo di Fratelli d’Italia.
Anche solo un po’ di sano realismo dovrebbe invitare i nuovi potenti a confrontarsi con gli altri e a procedere senza paraocchi, più che mai in un settore delicato come la cultura, che ha bisogno sì, eccome, di cambiamento e di innovazione, ma anche di competenza e d’apertura mentale. Perciò non ci resta che citare in positivo l’esempio dell’incontro di San Valentino tra Boeri e Giuli, all’insegna dell’atmosfera trasognante di Arca ostinata: quando mai nascesse un progetto targato Maxxi-Triennale, non potrà che essere qualcosa di buono, se non altro un ottimo segnale per tutti.