Giovedì 16 febbraio l'udienza sui domiciliari per l'ex vicepresidente del Parlamento Ue finita al centro dello scandalo mazzette da Qatar e Marocco. La politica greca denuncia di aver potuto vedere poche volte la figlia. L'analisi della situazione belga e il confronto con gli altri Paesi
Su carceri e figli di persone detenute l’Unione europea non ha soluzioni uniformi. Lo dimostra il caso di Eva Kaili, ex vicepresidente del Parlamento Ue finita al centro dello scandalo delle mazzette da Qatar e Marocco, che ha denunciato di aver visto la bambina di due anni soltanto due volte, a gennaio. Secondo la legge belga, la politica belga avrebbe potuto tenerla con sé in prigione fin dall’inizio. Kaili però chiede misure alternative alla custodia in carcere, che in Belgio significa braccialetto elettronico, finora negato: giovedì 16 febbraio ci sarà una nuova udienza e la difesa avanzerà di nuovo la richiesta di domiciliari. Il problema è che nel sistema belga mancano strutture adeguate a tutelare sia le esigenze giudiziarie che il rapporto mamma-bambino. La situazione è simile in tutta Europa, con punte di eccellenza in Germania, dove esistono prigioni aperte attrezzate per l’infanzia. All’opposto la Grecia: qui c’è un solo istituto per detenute con figli piccoli ed è un carcere standard. Convenzioni europee tracciano linee guida sui genitori reclusi, ma sono raccomandazioni, non leggi. E l’Italia è l’unico Paese ad avere una carta nazionale sul tema.
Come funziona in Belgio – “Un bambino entra in prigione quando non ci sono alternative”, spiega a ilfattoquotidiano.it Maurice Jansen, responsabile di Relais enfants parents (Rep), associazione non profit belga che tutela il legame detenuti-figli. Si esamina il contesto familiare, la posizione di entrambi i genitori, l’età infantile, la presenza di altri fratelli e le possibilità abitative. Se nessun’altra soluzione è praticabile, il minore finisce in carcere. Quello di Haren, dov’è detenuta Kaili, “non è concepito per accogliere bambini – dice Jansen – ma può farlo”.
Chi decide di tenere suo figlio all’esterno, invece, deve rispettare i regolamenti sui colloqui. La norma federale della Vallonia ne prevede cinque a settimana per chi è in custodia cautelare, tre per i condannati. In più, in 11 prigioni del Belgio, tra cui Haren, la rete Rep organizza almeno due visite al mese in spazi ad hoc per i bimbi. Questi colloqui, però, hanno un iter burocratico lungo. “Spesso – dice Jansen – passa del tempo prima che un detenuto in custodia cautelare faccia richiesta. Di solito spera di uscire presto e non vuole che i bambini vadano a trovarlo in carcere”. A ostacolare le procedure sono anche le difficoltà quotidiane, come gli scioperi che da ottobre a gennaio hanno coinvolto il sistema carcerario: “Erano organizzati di mercoledì – dice Jansen – giorno di incontri genitore-bambino, e questo ha generato ritardi nelle pratiche”.
Tra le domande rallentate potrebbe esserci quella di Kaili, che lamenta di aver visto la figlia quasi un mese dopo l’entrata in prigione. Un periodo lungo, contestato anche da associazioni come Children of prisoners of Europe (Cope), che monitora i diritti dei figli di detenuti in Ue. “Non è stata rispettata la Raccomandazione del Consiglio d’Europa” denuncia Cope in un comunicato. Si riferisce a un documento siglato nel 2018 anche dal Belgio, per cui “I bambini dovrebbero far visita a un genitore detenuto entro una settimana dall’ingresso in carcere e, su base regolare e frequente da quel momento in poi” (art. 17). Tuttavia, se in Belgio esistessero istituti adatti a madri con figli, i giudici potrebbero mandare Kaili fuori prigione senza rischi per le indagini. L’unico carcere abituato a ricevere bambini è a Lantin, a una decina di chilometri Liegi. Ma è un penitenziario femminile con celle standard riadattate per l’infanzia.
Come funziona in Italia – Per la legge 62/2011, in Italia un genitore con figli da zero a sei anni non dovrebbe mai andare in carcere, tranne per “esigenze cautelari di eccezionale rilevanza”. La misura prevista sarebbe la casa famiglia protetta o – per i reati gravi – l’Istituto a custodia attenuata per madri (Icam). Per anni questa norma è stata disattesa, assegnando di default alle sezioni nido delle carceri femminili le madri con figli fino ai tre anni, a prescindere dal reato commesso. Dal 2018 la sensibilità è cambiata e oggi è in corso una riforma che esclude quasi del tutto la detenzione in carcere. Si preferiscono gli Icam, strutture penitenziarie a tutti gli effetti ma con spazi e sorveglianza concepiti per attenuare l’impatto dei bambini con il carcere. In Italia sono cinque: a Torino, Milano, Venezia, Lauro e Cagliari. L’assegnazione a case protette finora è più rara, anche perché ne esistono due, a Milano e Roma, gestite da privati.
Esclusi gli ospiti delle strutture protette, che non rientrano nel circuito penitenziario, sono 17 i minori al seguito di madri detenute secondo l’ultimo dato ministeriale, aggiornato al 31 gennaio 2023. Vivono tutti in Icam, tranne uno nella sezione nido di Rebibbia. Più numerosi i minori che dall’esterno incontrano i genitori detenuti, almeno 100mila all’anno. Per loro, dal 2014 il Ministero della Giustizia riconosce la Carta nazionale dei diritti dei figli di genitori detenuti, che si basa sulla Convenzione Onu per i diritti dei minori (1989) e ha ispirato le Raccomandazioni europee.
Non è vincolante sul piano giuridico, ma osservata quasi al pari di una legge. Rinnovata periodicamente (l’ultima volta nel dicembre 2021), a volerla è stata soprattutto l’associazione Bambini senza sbarre, che insieme a Cope ha portato il testo al Consiglio d’Europa. “Ogni giorno in carcere entrano migliaia di bambini per mantenere un legame strutturante con i genitori – spiega a ilfattoquotidiano.it Lia Sacerdote, presidente di Bambini senza sbarre e promotrice del documento – Nessuno pensa che quando un adulto è in carcere c’è una conseguenza diretta sulla sua famiglia. Con la Carta, i loro bisogni fondamentali diventano diritti”.
Nel resto dell’Ue – Secondo le Raccomandazioni della Commissione europea sui diritti dei detenuti, approvate l’8 dicembre 2022, tutti i Paesi Ue dovrebbero prevedere “un’infrastruttura speciale e prendere misure ragionevoli a favore dei bambini, per garantire loro salute e benessere” per il periodo in cui sono in carcere col genitore (art. 66). Nella realtà, se è vero che ovunque in Europa è concesso l’ingresso dei bambini in carcere con la madre fino ai tre anni di età, c’è un divario enorme nella possibilità da parte dei giudici di scegliere misure attenuate o alternative.
Germania – È forse il Paese meglio attrezzato, con nove strutture per l’accoglienza di madri detenute con figli. La più importante è a Vechta, nella Bassa Sassonia. Aperta nel 1997, fa capo al sistema penitenziario ed è divisa in due parti: una risponde alle logiche dell’esecuzione della pena definitiva e accoglie bambini entro i tre anni, l’altra ospita donne in regime di semilibertà con bambini fino a sei anni. La struttura di Vechta è particolarmente attenta ad affiancare le madri anche una volta fuori in modo che vengano accompagnate nell’inserimento lavorativo. Durante la reclusione, i nuclei mamma-bambino sono seguiti da un educatore responsabile, il supporto è continuo e ogni sei mesi gli assistenti sociali redigono un rapporto sul comportamento madre-figlio. Il personale penitenziario ha requisiti specifici e viene formato anche a gestire le questioni educative e domestiche.
Spagna – A ospitare le donne in misura alternativa è per lo più la struttura di Nuevo Futuro. Si trova a Madrid e può accogliere fino a 55 madri con 66 bambini in totale. È paragonabile alle case protette italiane: regime aperto, vita simile a quella reale, con libertà per spesa, pasti e uscite. Le detenute osservano un regolamento interno e le donne arrivano dietro provvedimento di un magistrato che dispone eventuali limiti. La differenza, grande, rispetto all’Italia è che il personale è composto da educatori dell’Istituto penitenziario, e un assistente sociale fa una visita almeno ogni 15 giorni. Le donne possono anche lavorare o studiare, mentre i bambini sono seguiti da operatori.
Francia – Non ci sono strutture esterne per l’accoglienza di detenute madri con figli. Sono 25 le carceri abilitate ad accogliere i nuclei mamma-bambino, con una capacità totale di 66 posti. Si tratta di sezioni nido interne ai penitenziari, equipaggiate in modo da essere confortevoli per i bambini ma senza sostanziali differenze con il carcere ordinario. Gli accorgimenti riguardano le basi: acqua calda nelle celle, separazione tra spazio della madre e quello del bambino, apertura delle porte durante il giorno, ampiezza minima di 15 metri quadri.
Grecia – È tra i paesi più arretrati sui diritti delle donne detenute, incluse le madri. Lo dimostra il numero di carceri femminili: due in tutto il Paese. Le case protette non esistono. Secondo l’ordinamento greco, chi intende portare con sé i figli al di sotto dei tre anni è condotta nel penitenziario di Eleonas, a Tebe. Questo implica quasi sempre l’allontanamento da casa, il che rende più difficile mantenere i legami con i propri familiari, uno dei principi su cui si basa il sistema penitenziario mondiale.
Nel mondo – A stabilire gli standard minimi per il trattamento delle madri detenute in tutto il mondo sono le Regole di Bangkok (Bangkok rules). Settanta norme approvate nel 2010 dall’Assemblea generale delle Nazioni unite e racchiuse in un documento che rappresenta l’unico strumento internazionale sui bambini in carcere con i genitori. Secondo questa carta, gli istituti dovrebbero prevedere servizi specifici per le detenute con figli al seguito (regole 40-56) e prediligere sempre misure non detentive tranne in caso di reati gravi (regola 64). La gravità del reato però è sempre valutata dai giudici, che devono fare i conti con la mancanza strutture detentive adatte a bambini.