Né “sbarchi selettivi” né “carichi residuali”. La sezione Immigrazione del tribunale civile di Catania ha bocciato su tutta la linea la gestione dei migranti naufraghi al porto di Catania operata dal governo Meloni a novembre. E resa celebre dalle definizioni del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi per spiegare il blocco della nave della ong tedesca Sos Humanity arrivata con 179 persone salvate in mare. Fatti sbarcare i più fragili per motivi di salute, 35 persone ritenute non abbastanza ammalate sono state trattenute a bordo per giorni secondo un decreto interministeriale del governo. Una situazione risolta dai medici che hanno messo nero su bianco come neanche gli altri stessero poi così bene, soprattutto dal punto di vista psicologico. I 35 però – provenienti da Pakistan, Egitto e Bangladesh – avevano intanto fatto ricorso d’urgenza e, seppur ormai sbarcati da mesi, i loro legali Giulia Crescini, Cristina Laura Cecchini e Riccardo Campochiaro hanno chiesto che un giudice si pronunciasse comunque sull’accaduto. Un’ordinanza che pone dei “principi fondamentali anche in vista del decreto legge Ong Sar, in fase di conversione in questi giorni, che ridurrà le capacità di soccorso in mare e renderà ancora più pericoloso il Mediterraneo centrale”, commenta una nota di Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione.
Due le questioni principali: è possibile per uno Stato fornire assistenza soltanto ad alcuni? E come si garantisce così l’eventuale richiesta di diritto d’asilo? Alla prima domanda risponde subito il documento firmato dalla giudice del tribunale etneo Marisa Acagnino: “Fra gli obblighi internazionali assunti dal nostro Paese – si legge – c’è quello di fornire assistenza a ogni naufrago senza possibilità di distinguere, come sancito nel decreto interministeriale applicato nella circostanza, in base alle condizioni di salute”. “Un decreto illegittimo secondo il tribunale – spiega Riccardo Campochiaro, tra i legali dei 35 migranti – Il che significa che bene ha fatto il comandante a rifiutarsi di lasciare il porto e a voler concludere il salvataggio”. Un’azione con un precedente illustre: quello di Carola Rackete, capitana della nave della ong tedesca Sea watch, che nell’estate del 2019 ha sfidato il blocco di Matteo Salvini, l’allora ministro dell’Interno inventore di questa strategia, applicata dal governo Meloni solo a metà e in maniera selettiva, appunto. Un caso citato dalla stessa giudice Acagnino che riporta uno stralcio della sentenza che ha assolto Rackete, ricordando come “una nave in mare che presta assistenza non costituisce ‘luogo sicuro’, se non in mera via temporanea”.
Senza dimenticare il secondo punto, quello sulla possibilità di formalizzare la propria richiesta d’asilo. Una volontà manifestata già a bordo dai 35 per il tramite dei legali, ma ancora “da formalizzare negli uffici di frontiera o in questura”, ricorda il tribunale. Quindi a terra. E con gli Stati europei in cui si arriva – in questo caso l’Italia – che dovrebbero agevolarne la presentazione “quanto prima”, per poi essere processata in tre giorni. Una questione che pare chiarire anche uno dei passaggi oscuri del nuovo decreto del governo riguardo gli sbarchi, “che sembra voler stabilire la competenza di altri Stati per la valutazione delle domande d’asilo – spiega la nota di Asgi – anticipando forzatamente il momento della manifestazione della volontà di chiedere asilo (già a bordo, ndr) sfruttando lo Stato di bandiera delle navi che effettuano il soccorso. Alla luce di questa pronuncia appare chiaro che esistono alcuni principi che non possono essere aggirati: lo sbarco a seguito di operazioni di soccorso deve essere garantito a ogni persona senza distinzioni e a terra e l’accesso alla procedura di asilo è un diritto di tutte le persone e implica un’immediata attivazione delle autorità statali – italiane se lo sbarco avviene in Italia – a protezione delle persone richiedenti”.