Paul Newman – Vita straordinaria di un uomo ordinario (Garzanti) è uno di quei rari memoir delle star che ti vogliono violentare l’anima. Spiace per la brutalità, ma è come se uno dei più grandi attori della Hollywood del dopoguerra, e soprattutto uno dei più grandi sex symbol di quella costellazione dei ’50-’60-’70 ti dicesse all’improvviso, e sul grugno, “mi faccio schifo” e soprattutto “quello che avete visto è tutta una farsa”. Per capire meglio il calibro di questa mirabile confessione a cuore aperto, di questo garbato tentativo di sgarbugliare pulsioni, autostima, affetti di una celebrità, dobbiamo ripercorrere per sommi capi la genesi di questo biopic. Siamo nel1986 e Newman poco più che sessantenne, con l’Oscar appena vinto come miglior attore per Il Colore dei soldi – dopo dieci nomination andate a vuoto – decide di registrare un dialogo/intervista con l’amico Stewart Stern. Le cassettine di allora si accumulano per almeno cinque anni, fino al 1991. Uno dei divi più amati dello star system fa scivolare fuori dal petto ogni dettaglio della sua vita. Come se volesse finalmente farsi ascoltare. Si sa, queste cose di base sono legate al proprio ambito familiare e sentimentale. E lo spiegano bene due delle sei, tra figli e figlie avute da Newman, che introducono e chiosano il libro: “Papà dopo questa confessione cambiò”. Newman morì molto tempo dopo, nel 2008. E nel frattempo i nastri erano finiti in qualche discarica del Connecticut. Mentre la loro trascrizione su fogli di carta era custodita in qualche cassetto o scatolone di Stern (che morì poi nel 2015).
“Il danno per me si è verificato quando mi sono reso conto che quello che la gente acclamava non ero io. Erano personaggi inventati dagli sceneggiatori. Erano l’ingegno e l’abilità degli autori, l’ingegno e l’abilità delle persone responsabili dello sfruttamento e della vendita ad avere quell’appeal”, scrive Newman quando il libro sta per spegnersi. Ma nelle quasi 300 pagine strutturate su un’ossatura di racconto in prima persona di Newman, intervallate da puntuali e gustose testimonianze della moglie Joanne Woodward, dei figli, del fratello Arthur, di colleghi conosciuti (Bob Altman, Elia Kazan, George Roy Hill, Stuart Rosenberg, Robert Wise, l’attore Karl Malden, tra gli altri) e meno conosciuti, quest’idea del “guscio” fotografato sullo schermo, inseguito dai fan, che riceve tutta la gloria della folla, è piuttosto chiara fin dall’inizio. Da quando la madre distintamente ossessiva possessiva soffoca il piccolo Paul di coccole anestetizzandolo affettivamente. Da quando il padre, dedito totalmente al lavoro di piccolo commerciante sportivo ne schiva le impennate adolescenziali.
Paul Newman fu un ragazzo problematico, sballottato tra quella dimensione azzimata del successo arrivata quasi per caso e le naturali radici da collezionatore di mutandine al college e da ubriacone reiterato nel corso per diventare marine. L’assillo di Newman, del resto, sembra essere sempre lo stesso: ma ora che ho ottenuto un successo che non credevo, come mi devo comportare, o ancora meglio: chi devo essere? Forte sembra essere il disprezzo di sé, come del resto quell’indecisione sentimentale che lo fa oscillare tra la prima moglie e quel primogenito Scott, che morirà suicida nel 1978, e la relazione comunque travagliata con la Woodward. Ecco, se c’è un concetto che la biografia di Newman veicola è che la figura della star non può e non deve figurare come esempio di virtù sociale. Qualcosa di molto inattuale, oggi nel 2023in epoca social, ma che in Newman si spurga dissennatamente nell’improvvisa passione per i bolidi da corsa (vincerà l’ultima gara due anni prima di morire) e in una accentuata volontà a diventare un filantropo dalle mani bucate (grazie alla vendita di salse bio con il suo faccione finanziò progetti per bambini malati e poveri in mezza America). Del resto leggenda vuole che Newman prenda il largo solo perché James Dean morì schiantandosi sulla Route 466. Il ragazzo dagli occhi glaciali diventò così Rocky Marciano in Lassù qualcuno mi ama, successo commerciale di notevole fattura. “Una parte di me dice che ce l’avrei fatta lo stesso”.
Una parte, ovviamente. Il biopic di Newman è questa cosa qui. Un piede nell’abisso dell’incongruenza emotiva, nel solido rimpianto di non essere all’altezza a livello professionale ed intellettuale (l’aneddoto su come non capisse granchè di quello che gli diceva l’amico Gore Vidal è emblematico) rispetto all’ambiente dentro cui finisce per la sua lancinante bellezza e naturale bravura. Certo Vita straordinaria di un uomo ordinario ha anche tutti quegli aneddoti curiosi che fanno la storia del cinema, come quando sul set di Hombre arriva Sean Connery e si ingozza di peperoncini infuocati senza fare una piega; ma alla fine devia sempre nel catino delle lacrime dovute all’inespressa funzione di padre (la morte del figlio Scott è qualcosa di davvero duro da digerire mentre si entra ed esce dalle parole strozzate di Newman) e della disillusione esistenziale perfino politica. Anche qui meglio dissipare la mitologia di un Newman liberal, come fosse un George Clooney ante litteram. “Avevo sempre pensato che su questioni di scarso rilievo il governo a volte imbrogliasse, ma non avevo mai immaginato che un presidente degli Stati Uniti potesse mentire spudoratamente (..) fu terribile capire fino a che punto eravamo stati ingannati da Lyndon B. Johnson”, scrive Newman ricordando la scoperta recente dei Pentagon papers e delle balle guerrafondaie del presidente democratico sul Vietnam. Un Newman piccolo e fragile, insomma, con una lattina di birra in mano ad ammirare Marlon Brando che non accontenta “la gerarchia degli studios”: “Fu il primo a staccarsi da ciò che tutti avevano considerato una necessità: le interviste, le leccate di culo, l’etichetta del cinema”. Del resto di cosa parliamo quando parliamo dell’amata/odiata Hollywood della plastica e della finzione dove gli attori “dovevano sempre mettersi del ghiaccio sugli occhi e inserirvi gocce irritanti per mantenerli bianchi e brillanti per la macchina da presa”?