Le elezioni regionali appena concluse si sono svolte all’insegna dell’astensione che ha interessato l’ampia maggioranza degli aventi diritto (circa il 60%). In percentuale, voti espressi hanno premiato la coalizione di destra; il Pd ha retto, mentre gli altri partiti sono miseramente affondati. Tutti i commentatori (tranne quelli di destra) si stracciano le vesti sul problema dell’astensione.
Dunque cominciamo dall’inizio: la prima e più pesante responsabilità dell’astensione è degli elettori che non vanno a votare. L’articolo 48 della nostra Costituzione scrive: “Il voto è personale ed eguale, libero e segreto. Il suo esercizio è dovere civico“. L’elettore che non va a votare viene quindi meno a un preciso dovere, né vale la giustificazione che il non voto è un diritto perché qui si parla di doveri morali, non di obblighi di legge.
Soltanto dopo aver fatto questa premessa, e constatato che non è possibile costringere l’elettore a votare o punirlo perché non lo fa, ci si può interrogare sulle ragioni dell’astensione. Le giustificazioni banali: “I partiti non meritano il mio voto” o “sono tutti uguali e votare è inutile” lasciano il tempo che trovano: i partiti e simboli sulla scheda sono molti e se soltanto la metà degli astenuti votasse un partito nuovo, e ce ne sono, darebbe uno schiaffo sonoro ai partiti vecchi, ai quali sono rivolte le critiche.
Il nocciolo della questione mi sembra invece risiedere in una deriva di stampo populista in atto da lungo tempo, della quale il Movimento 5 Stelle è soltanto l’ultimo attore: quella per cui la politica blandisce l’elettore convincendolo di avere soltanto diritti e di essere quindi un “cliente” del governo e dello Stato.
L’elettore invece di esercitare il suo senso critico si lascia blandire con condoni, superbonus, Reddito di Cittadinanza, eccetera e diventa a tutti gli effetti cliente della politica. Lo Stato però non può avere come compito quello di fare regali, perché i regali non esistono. Sono scambi e si pagano con la spesa pubblica, cioè con le tasse, o con il debito, o con il risparmio sui servizi che diventano inefficienti. Il risultato è che il cliente per un verso o per un altro sarà sempre insoddisfatto e punirà il partito (cioè nella sua mente il fornitore) negandogli il voto, come si punisce un cattivo ristorante smettendo di andarci a cena.
La colpa dei partiti è quella di fare una propaganda che sottrae al cittadino la consapevolezza di essere parte dello Stato, attore responsabile e non cliente; la colpa dell’elettore è quella di credere a questa propaganda e svendere la sua dignità e responsabilità di cittadino in cambio di qualche “regalo” che dovrà poi pagare a caro prezzo. Chi oggi rileggesse i grandi intellettuali politici del passato, da Gramsci a Pasolini, da Salvemini (di cui ricorre quest’anno il 150mo anniversario della nascita) a Silone, vi troverebbe un linguaggio assai diverso da quello in uso oggi: questi autori infatti non risparmiavano critiche né ai partiti, né agli elettori, ed erano attenti nel distinguere le responsabilità degli uni da quelle degli altri.
Ad esempio nella raccolta Uscita di Sicurezza, Silone scriveva: “L’operaio può essere, come si è visto e si vede, un attivista delle cause più opposte: può essere camicia nera e partigiano, boia e vittima, o semplicemente, nei paesi ricchi e tranquilli, un pigro filisteo senza ideali”. Silone di certo non blandiva la categoria sociale di riferimento del partito nel quale aveva militato e dal quale era uscito per contrasti ideologici, né blandiva acriticamente nessun’altra categoria sociale o il “popolo” tutto intero: perché per lui politica era soprattutto impegno personale, a volte lacerante, ma impossibile da scansare.