Persino il toscanissimo Michelangelo Buonarroti, e il particolare della sua Creazione che fa da sfondo ai titoli di testa del Ben-Hur (1959) di William Wyler, non viene citato. Una provocazione, la mia, ma vero è che il colosso da 15 milioni di dollari (di allora, incassandone solo negli Usa più di 700) con Charlton Heston, Stephen Boyd e altre star americane e inglesi ignora gli italiani che vi ebbero parte attiva. Fu il remake del più pittorico e fiabesco film muto che sempre la Metro Goldwyn Meyer realizzò nel 1925 affidandone la regia a Fred Niblo, anche questo (ma solo inizialmente) girato in Italia. La versione del ‘59 non gratifica pubblicamente, salvo rare eccezioni, i ben 318 italiani mai considerati nei titoli, ma che fecero parte del cast, intendendo – se è vero com’è vero – che per cast si intenda tutti i ‘costruttori’ del film, dal regista all’ultima comparsa.

Michele Bovi, già dirigente Rai e autore, ha realizzato con Pasquale Panella, poeta, paroliere, noto anche per la sua collaborazione con Lucio Battisti, un lungo podcast di approfondimento in venti puntate (Ben-Hur un altro film) che svela inediti sulla lavorazione ma, soprattutto, mette in chiaro come la MGM che lo girò interamente a Roma, soprattutto a Cinecittà, abbia deliberatamente escluso da ogni ‘trionfo’, per restare in tema di romanità, le maestranze locali che avevano massicciamente contribuito alla realizzazione del film (11 Oscar, forse non tutti meritatati). Almeno a vederlo oggi, Ben-Hur, se si fa eccezione per la scena della gara delle bighe (in realtà quadrighe) che resterà, per la sua spettacolarità, nella storia del cinema, rasenta quello che una volta si chiamava ‘un polpettone’: molti pepla italiani a base di Ercole o Maciste, con ambientazioni pseudo romane o grecizzanti, non hanno nulla da invidiare al Ben-Hur di Wyler (per esempio quelli di Mario Bava o Vittorio Cottafavi), soprattutto se si tiene conto delle macroscopiche differenze di budget.

E i registi degli ercoloidi e macistoidi degli anni 60 utilizzarono, per la gran parte, la stessa manodopera tecnica e persino attori che in Ben-Hur erano stati retrocessi a fantasmi senza nome. A cominciare – ricordano Bovi e Panella – da Carmine Gallone (una settantina di film al suo attivo a partire dal 1914…) qui assistente alla regia della prima unità, che nel ’37 portò al successo Scipione l’Africano. Come operatore di ripresa troviamo Enzo Barboni, alias E.B. Clucher, l’uomo che porterà al successo, una quindicina di anni dopo, la coppia Bud Spencer & Terence Hill. In Ben-Hur si nota anche un malnutrito Lando Buzzanca barbuto che, con la paga per la sua apparizione in alcune sequenze come schiavo deportato sulle galee, ci pagò l’affitto. E ancora Giuliano Gemma, soldato al servizio di Roma, appena visibile nel film, che aveva cominciato come cascastore e che, negli anni 60, si sbizzarrirà nei pepla di casa nostra prima di raggiungere il meritato successo. E, incredibile apparizione, quella del futuro regista di tante commediole scollacciate con la Fenech: Nando Cicero, una comparsata nei panni di un valletto-staffiere.

Panni, peraltro, realizzati anche grazie alla manodopera italiana: colei che disegnò i costumi, Elizabeth Haffenden, fu affiancata da artigiani di Cinecittà i cui nomi oggi non direbbero molto ai più, ma che furono fondamentali per la realizzazione di tuniche, pepli e via vestendo. Per non dire delle intere famiglie di stuntmen romani (gli Zamperla, i Dell’Acqua, i Capanna, gli Uckmar, i Pevarello, i Cianfriglia, spesso padri e figli…) o di Mauro Zambuto, un fisico che contribuì alla realizzazione dei modellini delle navi (la scena fu girata in una piscina) per la epica battaglia navale in seguito alla quale Ben-Hur salva il console romano Quintus Arrius che lo amerà come un figlio. Pare siano state circa 200mila le persone che a vario titolo parteciparono a Ben-Hur, fra cui i cocchieri delle quadrighe (due delle quali finite in altrettanti ristoranti americani: una a Sacramento, l’altra a Planet Hollywood, la catena di Sylvester Stallone, Bruce Willis e Demi Moore).

Alfredo Danesi, che si riprese le altre, fu colui che fornì quadrighe e cavalli a Cinecittà (per decenni), organizzò la corsa e guidò la quadriga in competizione per la città di Messina, presto sbaragliata, insieme con le altre sei, da quelle di Charlton Heston e di Stephen Boyd. La storia, tratta dal romanzo (1880) del generale americano Lewis Wallace è quella, in estrema sintesi, del ricco ebreo Giuda Ben-Hur che, un tempo amico del tribuno romano Messala, se lo ritrova nemico a Gerusalemme. Quei cattivoni dei romani, nel film dipinti come nazisti o giù di lì, imprigionano la madre e la figlia di Ben-Hur che contrarranno la lebbra. Gesù Cristo, che non si vede mai in volto, le guarirà dopo che il giudeo Heston avrà sconfitto il rivale Messala nell’arena delle quadrighe. A monte del film – come raccontano Bovi e Panella – quest’ultimo anche narrante con la sua calda voce alla Carmelo Bene – ci sono Andreotti, ministro delle Finanze e persino la Cia, la nobiltà romana e la esclusione dai ranghi di lavoratori comunisti e persino dello scrittore Gore Vidal che avrebbe voluto una sceneggiatura con un sia pur ventilato amore gay fra Ben-Hur e Messala.

Bovi utilizza per il suo podcast vari talent, come si dice oggi, a far da commento alle vicende: Maria Concetta Mattei del Tg2, Carlo Conti, Gene Gnocchi, Maurizio Costanzo, solo per citarne alcuni. Persino i ladroni che affiancano Cristo nella scena della crocifissione sono italiani e il loro triste anonimato mi ha ricordato lo Stracci de La Ricotta di Pasolini, la rincorsa delle comparse ai cestini (i fagottini con il pranzo distribuiti sui set, per chi non lo sapesse…) e tutto un mondo di senza-nome che il podcast di Bovi e Panella descrive con quella minuzia quasi maniacale che, oggi, purtroppo, è una assoluta rarità.

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