L’intervento del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, al convegno dell’Assiom Forex (Associazione degli operatori finanziari) di febbraio, era abbastanza atteso. Nella sua lunga relazione Visco ha toccato molti temi e di sfuggita ha espresso anche la sua visione sull’inflazione attuale. Nulla di nuovo peraltro. Secondo la teoria ortodossa, pienamente condivisa dal governatore, i salari possono crescere solo quando aumenta la produttività e non quando salgono i prezzi dei beni. L’aumento dei salari, in caso di inflazione, radicherebbe le cosiddette aspettative inflazionistiche contribuendo ad alimentare un perverso ciclo prezzi-salari, come negli anni Settanta.

L’analisi del governatore, nel suo appiattimento sulle posizioni dei davosiani (i tecno-economisti di lusso che si riuniscono ogni anno a Davos in Svizzera), non sembra cogliere alcuni aspetti di novità dell’inflazione bellica attuale, come dimostra chiaramente l’esperienza dell’economia statunitense. Anche negli Usa l’inflazione, partita a razzo con l’aumento del prezzo del petrolio nel 2021, sta rallentando nonostante i forti incrementi salariali. Perfino Walmart, il colosso della distribuzione non certo noto per le sue simpatie sindacali, ha incrementato la paga oraria portandola a 15 dollari, dal minimo salariale di 11 dollari. Lì nessuno ha riesumato la vecchia teoria dell’inflazione da salari. Semplicemente i lavoratori stanno recuperando le quote di reddito perduto, secondo le tradizionali logiche della domanda e dell’offerta. Anche perché è necessario ricordare che i salari si muovono sempre dopo i prezzi, e non prima.

Allora perché in Italia viene riproposta, nelle più autorevoli sedi, la tesi che l’inflazione futura dipenderà sostanzialmente dalla crescita dei salari, che proprio per questo devono rimanere fermi? Le rivendicazioni salariali, che fra un po’ ripartiranno, sono veramente una minaccia per la stabilità monetaria ed economica? Le risposte possono essere tante. Forse una certa pigrizia mentale, l’attaccamento a vecchie teorie oppure semplicemente la scelta della strada più semplice, ma nessuna risulta pienamente convincente. L’arcano dipende dal fatto che l’inflazione è un fenomeno fortemente asimmetrico, cioè i prezzi si muovono verso l’alto ma mai, anche quando cambiano le condizioni di base, tornano verso il basso. Questo è il caso anche dell’inflazione bellica attuale.

I prezzi al consumo sono aumentati a causa dei fortissimi e improvvisi rincari energetici. Le imprese ed i lavoratori autonomi, gli unici soggetti che manovrano i prezzi, si sono subito avvantaggiati ritoccando i prezzi per salvaguardare profitti e reddito. Ora, con i prezzi delle materie prime energetiche in forte discesa, dovremmo vedere anche un po’ di deflazione. Se la pizza è passata da 8 a 10 euro per coprire il costo dell’energia elettrica dell’esercente, dovremmo vederla tornare ad 8 euro con il suo calo. Ma purtroppo, questo non succede. Gli extra costi iniziali coperti con l’aumento di prezzi si sono trasformati, quasi magicamente, in extra profitti e in rendite, a spese dei consumatori impotenti.

La logica economica anche qui non perdona. Il consumatore deve cedere alle mutate condizioni economiche e il produttore ne approfitta.

Gli unici a rimanere con il cerino in mano sono i lavoratori dipendenti, che naturalmente non possono decidere da soli di incrementare il loro reddito. Anzi, il loro salario non deve aumentare per non radicare le aspettative inflazionistiche, cioè per non provocare un’inflazione futura. In altre parole, i lavoratori dipendenti dovrebbero difendere la fragile democrazia ucraina, accettando tagli salariali, ma non potrebbero tutelare il loro potere di acquisto chiedendo degli aumenti. Mentre imprese e lavoro autonomo hanno più che recuperato la situazione pre-bellica, i dati su questo non lasciano dubbi, toccherebbe solamente ai lavoratori dipendenti subire la riduzione di reddito provocata dall’inflazione. Ma questo, oltre a non essere equo socialmente perché i costi della difesa della democrazia vanno ripartiti tra tutti e non scaricati sul lavoro dipendente, non è nemmeno efficiente sul piano economico.

Dove andranno a finire i corposi extra-profitti delle imprese italiane? Per esempio quelli dell’Eni oppure quelli delle grandi banche, tanto per fare un paio di casi? Dalle cronache si legge che queste società hanno in programma sostanziali buyback, cioè useranno i profitti straordinari per riacquistare le proprie azioni, con un gran guadagno degli azionisti. Molto semplicemente le risorse tolte ai lavoratori verranno riversate sugli azionisti. Il capitalismo finanziario torna alla carica con tanto di benedizione del governatore che in un passo della relazione esprime soddisfazione per i rendimenti tornati molto positivi del sistema bancario. Dimenticando però che questi extra profitti sono il frutto avvelenato della guerra che ha portato ad un incremento elevatissimo del tasso di interesse per decisione della Banca Centrale. Ogni qualvolta che la Banca Centrale aumenta il tasso di interesse le banche raccolgono parecchi miliardi dai debitori senza muovere un dito. Straordinarie capacità manageriali o semplicemente caso fortuito, peraltro ben retribuito?

Il capitalismo finanziario alimentato dall’inflazione va sgonfiato e per questo è doveroso incrementare la quota di reddito perduto che va ai lavoratori. Anche qui, Keynes fa da maestro e la politica economica può fare molto, se si vuole. Chiedere ancora un’inattuabile e anacronistica moderazione salariale senza colpire le rendite e gli extra-profitti fa parte di un repertorio ormai superato economicamente e poco giustificabile eticamente. Un luogo comune che andrebbe abbandonato quanto prima. Negli Usa è già successo.

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