Il sindaco di Verona ed ex centrocampista della Roma ha spiegato a ilfattoquotidiano.it la sua posizione rispetto al 2008, quando disse che fare outing poteva essere un boomerang: "Jankto se n’è fregato di quello che pensano gli altri. La sua vittoria è proprio questa"
Il bello delle opinioni è che anche loro invecchiano. E proprio per questo possono essere riviste, corrette, abbandonate. È successo così anche a Damiano Tommasi, un passato da centrocampista nella Roma scudettata di Capello (e nella Nazionale) e un presente da sindaco di Verona. In mezzo, nove anni da figura apicale dell’Associalciatori, il sindacato nazionale dei nostri giocatori. Nel novembre del 2011, al quarto mese di presidenza, Tommasi era stato intervistato da Klaus Davi, che lo aveva incalzato sul tema dei gay nel mondo del pallone: “Sconsiglio l’outing ai giocatori omosessuali, certo – aveva risposto Tommasi – In una squadra di calcio si condivide un’intimità, non so in quali altri mestieri si faccia la doccia tutti assieme. Non considero il mio un messaggio omertoso, ma semplicemente opportuno (…) Un outing potrebbe rivelarsi un boomerang, si verrebbe ridotti a una macchietta”.
È una frase che ha fatto discutere. E anche parecchio. Ma è anche un pensiero che appartiene a un passato lontano. E nel frattempo, il sentire comune è cambiato. In questi dieci anni Tommasi ha lavorato attivamente per cancellare le discriminazioni. Non è un caso che una delle sue prime iniziative come sindaco di Verona è stata la cancellazione di tre mozioni, adottate nel 1995, che impegnava l’amministrazione comunale a “non deliberare provvedimenti che tendano a parificare i diritti delle coppie omosessuali a quelli delle famiglie naturali costituite da un uomo e una donna”. Un colpo di gomma importante, che cancella un momento oscuro della nostra politica. Basti pensare che, in fase di approvazione di quelle mozioni, un consigliere comunale della Lega aveva detto: “Vogliamo far diventare un piccolo normale un grande gay?”.
Normale che, oggi, il sindaco di Verona non si rispecchi più in quella frase detta a Klaus Davi quasi dodici anni fa. “In molti mi avevano chiesto di commentare il coming out di Jakub Jankto – spiega Tommasi – ma io credevo che fosse giusto far parlare prima il mondo dello sport. Ora posso dire che una notizia simile non può che far piacere, perché è venuta direttamente dal ragazzo e da un atleta nel pieno della sua carriera. Si tratta di un tema molto intimo e personale, e credo che sia una cosa auspicabile mettersi al servizio di chi, liberamente, volesse aprirsi su questo tema”. Quella parola, “liberamente”, acquista un valore fondamentale nel pensiero di Tommasi. Perché si tratta di un passaggio talmente intimo che non può essere soggetto a costrizioni o a sollecitazioni esterne, ma deve venire dal profondo di ognuno. Per dire: nel giugno del 2006, mentre l’Italia vinceva il Mondiale tedesco, l’Arcigay aveva chiesto alla ministra Giovanna Melandri di impegnarsi per combattere l’omofobia nello sport e spingere “i calciatori gay della nazionale a dichiararsi”.
“L’idea di libertà deve essere centrale – aggiunge Tommasi – sia intesa nel senso di poter essere ciò che uno sente di essere, sia di esprimerlo pubblicamente. Ho fatto il calciatore professionista e posso dire che questo è un tema molto complesso. Anzi, è un paradosso: rischia di non sembrare un problema perché sembra che non si evidenzi mai abbastanza. Ma credo che ora i tempi siano maturi per affrontare la questione”. Nel 2012 un calciatore tedesco, che preferì rimanere anonimo, disse che fra i motivi del suo mancato coming out c’era la paura che la sfera privata fagocitasse quella sportiva, sostenendo anche che era stanco di non poter andare a cena fuori liberamente con il suo compagno. “Ecco, mi viene da dire che mi piacerebbe arrivare a un punto in cui se uno esce a cena con un’altra persona non deve sentirsi costretto a dover specificare prima con chi esce – aggiunge il sindaco – Dobbiamo lavorare affinché ognuno si senta libero, si possa sentire se stesso all’interno di una città e di una squadra. Questo deve essere l’obiettivo della politica, ma anche dello sport”.
Per riuscirci, però, serve un vero cambiamento culturale. Sia a livello collettivo che individuale. “Quando giocavo mi chiamavano Anima candida, per via del mio passato legato a un trascorso parrocchiale, di credo religioso, di persona praticante e partecipante alla comunione – continua Tommasi – e dalla mia esperienza credo che il grande pericolo della nostra società sia quello di cercare di creare a tutti i costi una macchietta, finendo così per banalizzare le cose. Ora le cose sono cambiate, c’è una maggiore sensibilità a certi temi rispetto al passato e in auguro che il gesto di Jankto venga trattato nel modo giusto dai media. È la prima volta che un calciatore di livello fa coming out mentre è in attività, speriamo che serva a rendere meno complicata la possibilità che altri seguano il suo esempio”.
Eppure Josh Cavallo, il calciatore australiano che giusto un paio di anni fa aveva deciso di svelare al mondo la propria omosessualità, ha raccontato di trovarsi di fronte agli insulti omofobi dei tifosi con una certa frequenza. E questo, forse, potrebbe essere un deterrente per ulteriori emuli. “Così come la decisione di fare coming out è un fatto personale – conclude – anche la reazione di ognuno di noi ai comportamenti altrui è personale. Il fatto dirompente, qui, è che Jankto se n’è fregato di quello che pensano gli altri. La sua vittoria è proprio questa. Ripeto: i tempi sono cambiati, non è più come qualche decennio fa”. D’altra parte qualsiasi cambiamento richiede tempo. Soprattutto quando c’è di mezzo un pregiudizio da estirpare.