L'attore-regista-produttore si è raccontato a FQMagazine prima delle cinque serate al Teatro Vittoria di Roma (dal 21 al 26 febbraio 2023): "Roma non è facile. Sono più tranquillo su Brindisi e Trapani... Sul politicamente corretto non ci sono limiti, io non gioco sulle regole del gioco. Io gioco la partita e parlo come cazzo mi pare"
Scorrettissimo me. Paolo Rossi in versione Minions. Non è una battuta, ma la realtà. Il comico friulano, adottato milanese, ha ricominciato a girare i teatri italiani con i fidi musici (più dal vivo che dal morto) Emanuele Dell’Aquila, Alex Orciari e Stefano Bembi. Lo spettacolo che porta in scena da qualche mese invita il commediante dell’arte Paolo e lo stand-up Rossi all’assalto del pubblico. Nelle note di regia, o di produzione, o di follia dell’attore-regista-produttore Paolo Rossi, c’è scritto: “I contenuti variano e sono sempre legati all’attualità: dal modificarsi del virus, alla guerra, alla crisi economica. Mancano solo gli alieni”.
Paolo questo Scorrettissimo me sembra uno spettacolo che si costruisce giorno per giorno, ogni serata vediamo e ascoltiamo una cosa diversa?
“C’è poco da meravigliarsi: questo spettacolo ha pure cambiato anche quattro titoli nel corso del tempo… (ride ndr). Resta valido solo il sottotitolo: ‘per un futuro repertorio’ che peraltro è un ossimoro”.
Quando è nato questo nuovo capitolo della tua carriera teatrale?
“Dal periodo della chiusura dei teatri dovuto al Covid. Noi non ci siamo mai fermati. Abbiamo lavorato anche quando i teatri erano chiusi, giocando le regole a nostro favore. Abbiamo lavorato per strada, nei cortili, nei caffè. Che so: io salgo su un tavolino di un bar e in quel momento il bar diventa un teatro. Abbiamo lavorato nelle case di ringhiera di Milano dove le norme igieniche venivano rispettate dalla struttura stessa. Sono teatri elisabettiani naturali. Certamente non abbiamo guadagnato molto”.
Un teatro che si adatta al luogo, un Paolo Rossi sperimentale…
“È venuto fuori che il teatro deve essere il luogo di relazione sociale. Più che recitare noi non siamo altro che dei conta-storie. Quando dico “noi”, dico io e i tre saltimbanchi musicisti, che sanno anche recitare, sul palco con me. Usiamo i teatri veri, gli spettacoli nei teatri veri dico, come promozione per battesimi, funerali, pranzi di nozze, divorzi, circoncisioni, liberazioni di ospizi (dato che al di là dei risultati elettorali di domenica scorsa, ci si dimentica cosa è successo a Milano nel periodo pandemico)”
Dacci un’idea quantitativa…
“Su dieci richieste per spettacoli che facciamo regolarmente sei-sette sono i non luoghi non deputati teatralmente. Dopo lo spettacolo vieni da me e ti puoi prenotare. Vuoi sposarti? Vieni lì e ti prenoti. Il nostro è un teatro di emergenza, soprattutto popolare, è agile e si adatta ai luoghi, cerca il rapporto con il pubblico. Non è che devi abbattere la quarta parete, perché questa già non esiste più. Saliamo sul palco come fosse casa nostra e con educazione (mi vien da ridere) trattiamo da ospiti il pubblico. Siamo un genere di conforto laico, anche nelle barricate serve chi porta un panino”.
Hai definito il tuo teatro, tra le innumerevoli altre definizioni, quello odierno come un teatro di domande. Invece in molti ricordiamo che hai sempre dato molte risposte…
“Il periodo d’oro della satira è stato bello. Mi sono divertito. Non rimpiango e non rinnego niente. Non ho cambiato le mie idee. Sono le idee che hanno cambiato di posto. Ecco perché la dose di improvvisazione dello spettacolo è altissima. Del resto la grande presenza di pubblico mi ha premiato”.
Ora ti aspettano cinque serate al Teatro Vittoria di Roma (dal 21 al 26 febbraio 2023 ndr). Una trasferta impegnativa…
“Roma non è facile. Sono più tranquillo su Brindisi e Trapani.
La difficoltà dei comici settentrionali a varcare il Rubicone…
“Io ho recitato anche Hong Kong. A Cracovia. Anche a Londra. Senza problemi. Il pubblico di Roma è caldo, per carità, è che a Roma molti spettacoli sono fatti per promozionarsi in tv o al cinema, mentre io mi promoziono solo per battesimi, matrimoni e funerali (ride ndr). La mia comicità ha un tipo di atteggiamento molto vicino alla musica, è assolutamente comicità di situazione, quindi universale, non di slang dialettale.
Del resto hai fatto spettacoli ovunque, anche in Slovenia, Croazia, Albania…
E lì parlano italiano meglio di noi. I confini, tra gli artisti, sono solo un piccolo briciolo di curiosità. Da un anno e mezzo sono diventato residente a Trieste e dopo gli spettacoli in Slovenia su wikipedia mi hanno cambiato il nome, dandomi il secondo nome di papà e nonna (istriana): Kobau. Mi piace molto Paolo Rossi Kobau. Sembra Kim Rossi Stuart. È molto musicale”.
Sul politicamente corretto come va? In questi mesi mai una battuta sulla guerra e sulla pandemia…
“Non ci sono limiti. Io non gioco sulle regole del gioco. Io gioco la partita e parlo come cazzo mi pare. Dopodiché va detto che rispetto un’altra regola. Lo scioglilingua che facevamo prima di entrare in scena in Comedians (che poi diventò un film di Salvatores): “Trasgredire per trasgredire trasforma il trasgressore in traditore”. Se trasgredisci solo per il gusto di farlo non mi piaci, se la trasgressione è la conseguenza perché sei come comico legato a un pensiero libero, allora non c’è problema”.
Perfino Berlusconi non racconta più barzellette e si è fatto serio statista…
“Preferisco non parlare dei colleghi. Oggi le vere star sono loro, si fanno più selfie di me”.
L’ultimo zombie che hai incontrato nei giorni scorsi?
“Giro molto per strada. La gente mi racconta storie, ma soprattutto faccio sondaggi. Uno su due, anzi due su tre sono o zombi o stronzi. È un periodo strano, sai? Vedo le cose con grande lucidità. Ci sono persone che ho conosciuto di destra, ma che quando scendono dal palco o entrano in casa diventano e si comportano come uno di sinistra. E viceversa! Molti che si dicono di sinistra scendono dal palco e entrano in casa diventano di destra”.
Però anche tu la sera della finale di Sanremo hai fatto pausa…
“Assolutamente no! Ero sul palco di Ferrara. Vi allego a tal proposito un video di quella sera. Quando parlo del mio teatro come teatro punk significa che quando c’è stata la finale di coppa campioni dell’Inter sul palco del Piccolo ho tenuto il televisore acceso, mentre platea e gallerie erano piene di sciarpe da stadio. La sera della finale di Sanremo davamo i risultati in diretta durante lo spettacolo. Oddio, non siamo arrivati fino alla fine. Nell’attesa del vincitore ho fatto otto bis. Poi sono svenuto e ho detto “non me ne frega un cazzo” e ce ne siamo andati”.