Il governo Meloni evita di andare (di nuovo) allo scontro con il potere giudiziario ma mette sul chi va là le parti sociali. Nell‘ultima bozza del decreto Pnrr atteso giovedì 15 febbraio in consiglio dei ministri, in cui viene riscritta la governance del Piano scardinando alcune strutture messe in campo da Draghi e aumentando i poteri di Palazzo Chigi, sono infatti scomparsi gli articoli che dopo le anticipazioni di stampa avevano suscitato l’altolà più o meno esplicito di Corte dei Conti, magistrati amministrativi e Consiglio di Stato. Saltano, dunque, la proroga fino a fine anno della limitazione della responsabilità erariale dei funzionari pubblici e l’accentramento al Tar del Lazio di tutti i ricorsi sulle opere finanziate con risorse del Piano. In compenso viene anche cancellato con un tratto di penna il Tavolo permanente per il partenariato economico, sociale e territoriale in cui siedono tra gli altri i sindacati e le associazioni datoriali.
Vero che quel tavolo coordinato da Tiziano Treu aveva solo funzione consultiva e veniva aggiornato ex post, spiega la vice segretaria generale della Cgil Gianna Fracassi, ma dalla lettura delle bozze esce un messaggio chiaro: la consultazione e partecipazione delle parti sociali e della società civile, esplicitamente prevista dal regolamento europeo che ha istituto il dispositivo di ripresa e resilienza, passa in secondo piano. “Non viene nemmeno citato il protocollo del 2021 che prevedeva un confronto preventivo con le organizzazioni di rappresentanza del lavoro. Il prossimo biennio è quello che conta per la realizzazione dei progetti e non vorremmo che i tavoli settoriali e quelli sulle ricadute occupazionali degli appalti siano sostituiti dai soliti organismi pletorici a cui partecipano tantissimi soggetti, come sta succedendo su pensioni e sanità”. Con quello che ne deriva in termini di efficacia. Cambia poco il fatto che continui ad essere evocata la partecipazione di rappresentanti delle parti sociali alle sedute della cabina di regia a Chigi: “La possibilità c’era anche prima ma non si è mai realizzata”. Il 14 febbraio la confederazione, insieme a Cisl e Uil, ha chiesto al governo una convocazione immediata per discutere del testo, “anche alla luce dell’impegno assunto dal ministro Raffaele Fitto a discuterne anticipatamente”, ma al momento non ha avuto risposta.
Tornando alle parti cancellate in extremis rispetto alle bozze di fine gennaio, salta all’occhio che una “manina” è intervenuta sul comma 4 dell’articolo 15 nel quale si prorogano fino al 31 dicembre 2023 alcune disposizioni del decreto Semplificazioni del 2020 mirate a velocizzare gli appalti. E ha eliminato il riferimento all’articolo 21 di quel provvedimento del Conte 2, che circoscriveva la responsabilità erariale dei funzionari pubblici ai casi in cui il danno fosse frutto di dolo consapevole, omissione o inerzia. L’efficacia di quello “scudo“, caro ai sindaci, era stata prolungata fino al 30 giugno 2023 dal decreto Recovery dell’estate 2021 e le prime bozze del nuovo dl preparato dal governo Meloni lo estendevano fino a fine anno. Durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario il presidente della Corte dei Conti ha però ancora una volta criticato pesantemente la scelta di limitare la punibilità di amministratori e dipendenti pubblici (nonché dei “privati che sono a vario titolo coinvolti nella realizzazione di programmi di spesa finanziati con pubbliche risorse“), che già nel 2021 era stata giudicata “non coerente con il diritto dell’Unione Europea e con i valori espressi dalla Carta Costituzionale”. Al momento, la nuova proroga è saltata. Possibile però che il governo intenda intervenire per legge sia su questo sia sull’abuso di ufficio, come chiesto dall’Associazione nazionale comuni italiani con la sponda di Forza Italia.
L’altro stop ha riguardato l’accelerazione dei giudizi amministrativi in materia di Pnrr, dopo che l’Associazione nazionale magistrati amministrativi – e in maniera molto più sfumata il Consiglio di Stato – avevano bocciato l’intenzione di assegnare la “competenza inderogabile” su tutti i ricorsi relativi all’affidamento di opere del Pnrr e relativi espropri al Tar Lazio, che già gestisce un terzo del contenzioso amministrativo totale. Dimezzando in aggiunta i termini processuali ordinari. Secondo l’Anma il risultato sarebbe stato di “compromettere la funzionalità della giustizia amministrativa dimostrata dai tempi medi di decisione degli appalti (111 in primo grado e 158 in secondo grado)” e “travolgere l’effettività del diritto di difesa di cittadini e imprese” perché “un’ulteriore contrazione dei tempi di ricorso e decisione si porrebbe in contrasto frontale con le garanzie costituzionali di effettività ed efficacia della tutela giurisdizionale contro le decisioni illegittime della pubblica Amministrazione (art.113) e con gli stessi obiettivi di effettività di tutela dei diritti affermati nel PNRR, come condizione dell’erogazione dei finanziamenti” e la concentrazione al Tar centrale “svuoterebbe di contenuto sia la garanzia costituzionale di territorialità del giudice amministrativo (art. 125) sia, più in generale, il processo di valorizzazione delle autonomie territoriali in corso da un ventennio”. Giudizi condivisi dall’Unione nazionale degli avvocati amministrativisti. Di qui la marcia indietro del governo, salvo sorprese dell’ultimo minuto.