Il gesto desiderato, forse dovuto, di certo appassionato. Laggiù qualcuno mi ama di Mario Martone dedicato a Massimo Troisi “è erede del film che avremmo voluto fare insieme e non abbiamo purtroppo potuto”. Pertanto non è solo una lettera d’amore, di gratitudine e di stima, è un gioiello squisitamente cinematografico. Perché “ho voluto affrontare Troisi come fosse un pittore del ‘400, una tabula rasa, partendo dalle opere, dai suoi film”, spiega Martone. Dunque un’opera meta-artistica che compenetra due sguardi dentro a un’appartenenza culturale condivisa, ma anche a un’idea di cinema che equivale a una Visione-di-mondo, a una “forma della vita”, e per questo, in sintesi, è un film profondamente “troisiano” benché autenticamente segnato dal tocco di Martone.
Inserito nella sezione Berlinale Special al 73° Festival di Berlino e presentato in prima mondiale a due giorni dal 70° anniversario dalla nascita di Troisi, il documentario è un viaggio epico e intimo siglato da un autore che sta vivendo un periodo particolarmente ispirato e prolifico, e parte con un’idea di opposizione tra la messa “in campo” e la messa “fuori campo”, qualcosa di molto coerente e sostanziale sia al cinema di Troisi che di Martone. A partire dalla decisione del regista di Nostalgia di mettersi in scena accanto al suo montatore Jacopo Quadri mentre lavora la post produzione di Laggiù qualcuno mi ama: una scelta che esibisce il “cinema in progress”, il meccanismo che sostiene l’idea creativa al fine di entrare con più pertinenza nei codici creativi del collega compianto. Come pensava l’artista/cineasta Troisi, come si ispirava, come si relazionava con il mondo, con la sua città, con la politica, con le donne, e con l’amore, che era per lui “un’esasperazione, una condanna”, ed infine con la morte. E se pure in campo sono le parole scritte dal grande Massimo su foglietti volanti, sulla sua agenda, così come le confessioni registrate su cassetta – patrimonio inestimabile conservato dall’ex compagna e co-sceneggiatrice di una vita Anna Pavignano, ideatrice e coautrice del documentario spesso e spesso in scena – fuori campo, invece, restano i grandi attori contemporanei chiamati a leggere/recitare tali scritti/pensieri. Di Toni Servillo, Silvio Orlando e diversi altri si odono le voci, umilmente a servizio di un Maestro indistintamente amato e stimato da tutti.
Il Massimo Troisi ritratto da Mario Martone contiene molteplici tracce di una mappatura ricchissima, che evidenzia quanto l’artista e l’uomo suonassero all’unisono, nel contrasto di una fragilità che diveniva forza e di una forza che conosceva la propria fragilità. E non a caso in una poetica esistenziale e “anarchica” molto vicina a quello della Nouvelle Vague, messa giustamente in parallelo da Martone, in particolare con i personaggi “fuggenti” di Truffaut. Del resto “Massimo era un ribelle, aveva un istinto politico a cui è rimasto sempre fedele. Lui era figlio degli anni ’70 napoletani, non c’è da stupirsi. Teorizzava un personaggio che non doveva mai piegarsi o arrendersi al conformismo. Raccontava non l’amore in sé ma quello che compare e scompare. Nonostante la sua popolarità, la sua resistenza ai condizionamenti esterni restava salda, e anche questo è Nouvelle Vague, qualcosa di cui era ben consapevole”.
Di Troisi nel film c’è tanto ma non c’è tutto, non deve esserci tutto, perché lui stesso detestava la “tuttologia”: “Io non ci credo tanto in chi sa sempre tutto di tutto” diceva. E su di lui, che è morto da poeta giovane e sublime, non sono chiamati al ricordo gli “ovvi” Lello Arena ed Enzo Decaro, bensì autori che ne esplicitano l’eredità profonda, e questo perché “non volevo gli amici di Massimo, che parlano di lui nei tanti documentari preziosissimi pre-esistenti al mio, ma chi potesse guardando come me”. Ecco dunque sfilare le testimonianze di Francesco Piccolo come scrittore e sceneggiatore, Paolo Sorrentino come regista, Ficarra & Picone come comici, Michael Rardford e Roberto Perpignani come regista e montatore de Il postino, (“che considero l’ultimo film di Troisi come autore”) ed infine l’altrettanto compianto Giuseppe Bertolucci cui si deve la scrittura di Non ci resta che piangere del 1984, oltre che un’intervista a critici Goffredo Fofi e Federico Chiacchieri, al quale cui si deve la prima monografia dedicata a Troisi. Ma accanto a numerosi (e spesso tra i più divertenti) spezzoni del Troisi-mondo teatrale, cinematografico e televisivo inseriti nel doc, a vibrare sono le scene di rara intimità girate nello studio “aperto sul mare” di Anna Pavignano, donna e scrittrice che emana serenità attraverso una bellezza naturale e autentica, caratteristiche che si capisce corrispondessero a quanto Troisi amava, anche perché in parte a lui complementari.
Anna che viene da Torino, non da Napoli, e che forse proprio per questa “distante” provenienza culturale e linguistica ha aiutato Massimo a scrivere testi universali, astraendoli dal Dna partenopeo, evidenziando quanto l’artista da San Giorgio a Cremano amasse certamente le proprie origini ma non sentisse l’esigenza di esclusività territoriale, e sentimentale. Del resto Napoli trasudava dai suoi gesti, dalle sue “non parole” e dall’amicizia simbiotica e gemellare con l’altra icona campana, quel Pino Daniele che gli era colonna musicale e fratello di cuore fragile. Come non commuoversi rivedendoli inquadrati insieme mentre Pino compone Quando per la colonna sonora di Pensavo che fosse amore…invece era un calesse. “Insieme Massimo e Pino hanno colto il sapore profondo di quegli anni, anche della protesta del tempo, sullo sfondo napoletano”. Laggiù qualcuno mi ama, prodotto da una produzione Indiana Production, Vision distributione e Medusa Film in collaborazione con Sky uscirà in 200 copie il 19 febbraio (compleanno di Troisi) con un raddoppiamento a 400 dal 23 febbraio.