Sessant’anni fa, a New York, nasceva Michael Jeffrey Jordan, da molti considerato la più grande icona sportiva di sempre a livello globale. Come ogni definizione superlativa anche questa può essere messa in discussione, ma credo sia importante sottolineare il valore nell’accezione squisitamente sportiva del primato di Jordan: il “nome diventato sinonimo di eccellenza”, come disse Barack Obama, non ha avuto lo spessore simbolico e sociale di una figura come Mohammed Alì, né ha ispirato un innamoramento perenne e commovente come Diego Armando Maradona, né ha incarnato l’eleganza apollinea di Roger Federer.

All’interno della storia del basket, Bill Russell ha vinto più “anelli”, Wilt Chamberlain ha raggiunto record ineguagliabili a livello statistico, pochi giorni fa Lebron James ha superato il longevo record di punti segnati in carriera da Kareem Abdul-Jabbar. Eppure, in qualsiasi classifica stilata dai colleghi a lui contemporanei, dai pundit del basket o attraverso il consenso popolare, la supremazia di Jordan come G.O.A.T. (acronimo di “Greatest of All Times”) appare tuttora netta. Il motivo non è da cercare nel numero impressionante di riconoscimenti e risultati ottenuti in carriera (il doppio three-peat, ovvero l’aver vinto per due volte una serie di tre “anelli” consecutivi, due ore olimpici, l’aver vinto sei finali su sei nelle finali play off, l’essere stato cinque volte MVP della stagione, sei volte MVP delle finali, dieci volte miglior realizzatore, tre volte migliore nelle palle rubate, una volta anche miglior difensore dell’anno), né soltanto nell’essere stato il primo atleta a diventare un brand (grazie alle Air Jordan è tutt’oggi l’atleta che guadagna più al mondo, a più di vent’anni dal suo ritiro).

Se Larry Bird (che di lui una volta disse “Era Dio travestito da Michael Jordan”) e Magic Johnson (che lo definì “l’atleta più forte” autore del “canestro più bello”) salvarono l’NBA grazie alla loro rivalità, feroce quanto colma di rispetto, Jordan l’ha resa uno sport di culto mondiale: un’intera generazione di atleti è cresciuta desiderando “essere come Mike”, come recitava un celebre slogan pubblicitario. Eppure, secondo me, non è in questo che risiede la grandezza di Michael Jordan.

Avendo visto e rivisto il meraviglioso documentario The Last Dance che ha incantato il mondo durante la forzata clausura della pandemia, avendo compulsato ripetutamente i libri imperdibili Michael Jordan, la vita di Roland Lazenby (66th and2nd) e Air. la storia di Michael Jordan di David Halberstam (Magazzini Salani), ho capito che la vera unicità di Jordan risiede a un livello più alto, potrei dire spirituale. Quell’ “aura” soprannaturale, quasi visibile al loro primo incontro di cui parla Allen Iverson, quella forza interiore esemplare in grado di ispirare un maestro della disciplina come il compianto Kobe Bryant, quell’energia sportivamente messianica che indusse il mondo della pallacanestro a battezzarlo fin da ragazzo “Black Jesus”, tutto ciò non è soltanto il risultato del consueto abuso dell’iperbole che tanto affligge la retorica sportiva, soprattutto in America.

La storia di Michael Jordan ha qualcosa di ben più di romanzesco, ha a che fare con l’epica e col sacro: destinato a vincere, al culmine della carriera, nella dominazione assoluta del suo sport, la sua vita si spezza: sconvolto dalla morte per omicidio del padre, e disgustato dai pettegolezzi della stampa, si ritira e va a giocare a baseball in una lega inferiore. Poi improvvisamente decide di ritornare (annunciandolo su un quotidiano con le semplici parole: “I’m back.”) e… ripete la stessa impresa, rivince tre “anelli” di seguito.

Guardate, il suo ultimo tiro con i Chicago Bulls, il celeberrimo “The last shot”: a pochi secondi dalla fine, quando sta per sfuggire l’impresa che lo avrebbe consegnato alla storia come il più grande di sempre, Jordan va dall’avversario più temuto, Karl Malone, gli ruba la palla, si reca con calma impressionante verso il canestro avversario, una finta a sbilanciare il marcatore, tiro… e (come succede solo nei film) la palla entra. Jordan nemmeno esulta, rimane in contemplazione, come gli aveva insegnato il suo “coach zen” Phil Jackson.

Il Viaggio dell’Eroe compiuto: la storia che prende, per una volta, il verso giusto. Per questo Jordan non è solo il più grande atleta di sempre, ma una guida spirituale, il maestro che ha incarnato, prima di proferirla, la sua frase più famosa: “i limiti, come le paure, spesso sono soltanto illusioni”.

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