L’Italia, deferita alla Corte di Giustizia Ue per il ritardo con il quale definisce il quadro di tutela per il whistleblowing, invochi a sua discolpa l’assoluzione di Berlusconi nel “Ruby Ter”: testimoniare è un peccato, chi ci casca diventa imputato!

Quella della introduzione delle norme di tutela per il whistleblowing è una storia ormai ultradecennale che ha avuto un momento di svolta nella XVII Legislatura, quando venne approvato (finalmente!) il primo pacchetto organico, volto ad impedire che il “segnalante” di illeciti nella Pubblica Amministrazione potesse subire ritorsioni sul posto di lavoro. Nessun premio, nessun sostegno per le eventuali spese legali da sostenere e nemmeno per altri possibili patimenti.

Intendiamoci: la “segnalazione” fatta dal whistleblower può avere a che fare con irregolarità o illeciti non necessariamente di rilevanza penale, in ogni caso la logica della segnalazione è soltanto quella dell’avvertimento fatto suonare alle orecchie di chi, a vario titolo, abbia il dovere di provvedere, in un modo o in un altro. Non si deve quindi pensare esclusivamente alla segnalazione anonima di una condotta potenzialmente rilevante sul piano penale, fatta pervenire all’autorità giudiziaria – questa infatti è soltanto una delle situazioni possibili, e in ogni caso la “segnalazione” (tanto più se anonima) di un fatto ipoteticamente penalmente apprezzabile non ha alcun valore probatorio, ma può soltanto mettere sull’avviso il titolare dell’azione penale che nel caso decide di attivarsi autonomamente, considerando la segnalazione alla stregua di uno spunto investigativo.

La figura del whistleblower ha una rilevanza molto maggiore rispetto al ristretto campo del penalmente rilevante, perché punta a consentire a chiunque abbia un rapporto con un Ente pubblico o una azienda privata di segnalare prima di tutto ai responsabili di quell’Ente o di quella azienda l’esistenza di condotte discutibili, riprovevoli, scorrette o illecite, mettendo quindi prima di tutto l’Ente stesso nelle condizioni di sapere e intervenire – diremmo – in “autotutela”, anche decidendo di attivare una indagine interna e di riferire quanto emerso all’autorità giudiziaria. Tanto precisato, per tutelare l’autore della segnalazione bisogna che sia possibile farla in forma anonima, dal che l’indicazione normativa volta ad obbligare Enti ed aziende a predisporre canali sicuri di segnalazione e bisogna poi prevedere, ad ogni buon conto, il divieto totale di qualunque forma di ritorsione quando, per qualunque motivo, l’identità del segnalante dovesse essere resa manifesta (per esempio perché si è aperto un procedimento penale nel quale al segnalante venga chiesto di diventare testimone dell’accusa).

Il tutto riposa su una premessa quasi banale: il rispetto delle regole è un valore irrinunciabile, perché dal rispetto delle regole dipendono sicurezza e libertà. Chi con la propria segnalazione favorisce il rispetto delle regole è un tesoro da custodire (se non proprio da premiare).

La premessa a pensarci bene è “banale” fino ad un certo punto e questo è vero probabilmente in ogni Paese dell’Unione Europea. Ma in Italia!

Nella mia esperienza ho conosciuto diversi whistleblower, alcuni di questi ante litteram: persone cioè che semplicemente avevano denunciato condotte illecite (penalmente rilevanti nei casi che ho avuto modo di conoscere) poste in essere nelle aziende per le quali lavoravano o negli enti pubblici di cui erano dipendenti, prima dell’approvazione delle norme di cui stiamo discutendo. E (purtroppo) ho sempre dovuto constatare che avevano dovuto subire forme odiose di ritorsione per quello che avevano fatto. Altro che applausi! Le ritorsioni più facili da individuare e sanzionare legalmente sono quelle che hanno a che fare con il licenziamento, il demansionamento, il mobbing. Ma c’è una forma più subdola e impalpabile di ritorsione che è l’isolamento, la sensazione che ti si appiccica addosso di aver fatto la cosa sbagliata, di aver addirittura tradito la lealtà che si deve a colleghi e superiori.

Quella forma di “lealtà” sudicia che, quando non sconfina nella complicità, assume le forme del quieto vivere, del girarsi dall’altra parte, del “vivi e lascia vivere”, dell’italico e intramontabile “fatti i cazzi tuoi che campi cent’anni!”.

Quella forma di “lealtà” che diventa omertà, brodo culturale del quale si alimentano mafie e corruzione.

Questa forma di “lealtà” si fonda a sua volta sul disprezzo per la democrazia, sulla radicale diffidenza nei confronti del principio di legalità come fattore di sicurezza individuale e collettiva. Si fonda in ultima istanza sul valore dell’appartenenza al branco, perché “una mano lava l’altra e due mani lavano il viso”.

Le istituzioni italiane con grande fatica in questi dieci anni hanno rilasciato norme di tutela del whistleblowing, spinte dalla Ue, allargando progressivamente il campo di applicazione di queste tutele sia sul piano oggettivo (non soltanto Enti pubblici, ma anche aziende private), che su quello soggettivo (non soltanto dipendenti, ma anche collaboratori, stagisti, volontari).

Anche il governo Meloni aveva avviato, nel mese di dicembre, il procedimento per la traduzione nell’ordinamento nostrano di quanto dovuto; con ogni probabilità tanto basterà dimostrare per difendersi davanti alla Corte di Giustizia Ue. Ma queste norme stiracchiate poco potranno contro quel brodo culturale e la cifra di questa fatica per me sta nella incapacità di tradurre in italiano il termine whistleblowing. Eppure la nostra lingua è ricchissima, come ben sappiamo: possibile che non si riesca a trovare un bel termine con una accezione positiva? Sarebbe una bella sfida per questo governo che, essendo il più a destra della storia repubblicana, dovrebbe godere nel trovare un’alternativa all’odiato anglicismo. Sarebbe una bella sfida per i nipoti del “boia chi molla” riuscire a tradurre in italiano il termine whistleblowing, resistendo alla tentazione di usare “spia” o “infame”.

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