Un anno fa il nostro Parlamento ha finalmente aggiunto la tutela dell’ambiente anche nell’interesse delle future generazioni ai diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione. Nessuno se ne è ricordato, con la sola eccezione della Fondazione Univerde, che ha promosso un importante evento in Senato affollato da molti giovani, i quali hanno richiesto a gran voce l’attuazione del dettato costituzionale approvato un anno fa. E, in quella sede, si è anche sottolineato che la riforma non riguarda solo l’ambiente in senso stretto ma estende la sua tutela anche ai diritti degli animali, pur se lo fa indirettamente, rinviando espressamente alla legge ordinaria.
Molti forse pensano che sia esagerato, ma ogni giorno appare sempre più chiaro che ce ne è bisogno. E’ appena stata pubblicata, ad esempio, una sentenza della Cassazione (n. 537 dell’11 gennaio 2023) in cui la suprema Corte ha confermato la condanna per maltrattamento di animali a carico di un individuo che deteneva un cucciolo “in un locale chiuso, scarsamente illuminato, in uno spazio angusto di un garage, chiuso da rete metallica in mezzo ad oggetti ingombranti (l’imputazione riferisce di un metro quadrato), con conseguente scarsa possibilità di movimento, in mezzo alle proprie deiezioni e senz’acqua per essere stata in quelle condizioni rovesciata la ciotola”, ricordando contestualmente che commette il reato (art. 727 c.p.) non solo chi abbandona gli animali ma anche chi li mantiene in condizioni incompatibili con la loro natura; richiamando e confermando così la sua giurisprudenza (ne avevo accennato nel 2016) secondo cui, ai fini dell’integrazione del reato in esame, non è necessario che l’animale riporti alcuna lesione all’integrità fisica, potendo la sofferenza consistere anche soltanto in meri patimenti ovvero in situazioni che incidono sulla sensibilità psicofisica dell’animale, procurandogli dolore e afflizione, la cui inflizione sia non necessaria in rapporto alle esigenze della custodia e dell’allevamento dello stesso. E, pertanto, a nulla rileva, come spesso chiede la difesa, la mancata asseverazione da parte di un veterinario del cattivo stato di salute dell’animale.
Emblematico, a questo proposito, è il caso deciso dalla Cassazione alcuni anni fa (ne ho già parlato su questo blog) in cui si era accertato che alcuni cani erano tenuti “all’interno di un recinto, muniti di un collare antiabbaio, produttivo di sofferenze e permanentemente funzionante”; caso giustamente oggetto di condanna penale in quanto, ai fini del reato di maltrattamento di animali, “non è necessaria la volontà del soggetto agente di infierire sull’animale, né che quest’ultimo subisca delle lesioni. Integra, pertanto, il reato di cui all’art. 727, co. 2, c.p. l’utilizzo del collare c.d. antiabbaio, che provoca al cane scosse o altri impulsi elettrici tramite comando a distanza, poiché concretizza una forma di addestramento fondata esclusivamente su uno stimolo doloroso tale da incidere sull’integrità psicofisica dell’animale”.
L’unica nota negativa, a mio sommesso avviso, è l’entità della pena, che di solito si risolve con un migliaio di euro. Forse, ora che anche la Costituzione si è ricordata degli animali, sarebbe il caso di passare all’arresto per chi li fa soffrire.