Ogni quattro anni, con le estati olimpiche a riempire giornali ed esultanze, spunta qualche atleta che dal semi anonimato passa alla gloria. Questione di minuti: di prestazioni più o meno perfette che valgono le medaglie ai Giochi e l’ingresso nella ristretta categoria degli sportivi che ce l’hanno fatta. Di solito succede nelle discipline minori, definite così a causa dell’insopportabile vizio di pesare l’importanza di uno sport in base al seguito di pubblico. Ma tant’è. Non è questo il punto. Fatto sta che da essere nessuno, diventi un Dio. Per qualche giorno. E approfitti della ribalta mediatica. E ripensi a tutti i sacrifici fatti. E partono i ringraziamenti. Fateci caso: il primo grazie di solito è per “il mio maestro, quello che ha creduto in me e mi ha spinto a continuare nonostante le difficoltà”. Ecco: i primi maestri, quelli che insegnano sport, che crescono uomini e donne per farli diventare campioni. Vogliamo raccontarli così: capire il loro modo di intendere la competizione, scoprire i loro metodi, conoscere i loro aneddoti, sapere da chi hanno imparato. Ci saranno maestri noti e meno noti, espressione di discipline con grande o poco seguito. Unico comune denominatore: loro sono lo sport che insegnano e che hanno contribuito a migliorare. (Pi.Gi.Ci.)
“Non diamoci del ‘lei’, il ‘tu’ appartiene alla cultura romana: quando lavoravo per la Juventus ho dato, nella vecchia sede in Piazzetta Crimea, del ‘tu’ anche a Umberto Agnelli”. Una lunga carriera da allenatore in serie C per tutti gli anni Settanta e Ottanta, prima di diventare commissario tecnico dell’Indonesia e del Mali. Romano Mattè ha girato il mondo anche come osservatore. È diplomato Isef, oggi a 84 anni compiuti, collabora ancora con l’Università di Verona. “Ho fatto quattro anni di Medicina, ma poi ho abbandonato perché io il dolore non riesco a sopportarlo e così non riuscivo nella parte pratica. Prima avevo fatto il liceo classico, sono passato dunque a fare l’Isef”.
Chi è stato il suo maestro, cioè… il tuo maestro?
“Walter Bragagnolo, rettore e fondatore di Scienze Motorie a Verona, è stato un rivoluzionario. Mi ha insegnato che non vanno allenate solo le gambe ma anche il cervello tramite competizioni gioiose. È la qualità che genera la quantità: un’ora e un quarto di allenamento fatto bene, può bastare. Gli allenamenti non devono essere uguali per tutti, ma specifici per ruoli. Diversamente da quella che era allora la metodologia sovietica, il cui segreto è stato comunque il doping”.
Come si chiama questo modo di allenare?
“Neuronale-situazionale. Io l’ho provato in prima persona con il Teramo nella stagione 1989-90, ma già prima suggerivo la preparazione atletica ad allenatori di seria A. Il capitano del Teramo inizialmente mi chiedeva che puttanate gli facessi fare e invece i calciatori nella competizione diventano bambini. Bragagnolo è mancato tre anni fa, gli sono stato molto vicino negli ultimi tempi perché avevo verso di lui un debito d’amore e di gratitudine”.
Credi di avere degli allievi?
“Ho cercato di seminare. Ma oggi in serie A usano metodologie sbagliate, se è vero che c’è il doppio di infortuni rispetto alla Premier League. Il corpo dell’uomo ha delle regole, se per esempio salta il flessore della coscia significa che non c’è equilibrio. Oggi mi piace Juric, che viaggia sulla mia linea ma non crede nello scarico post gara. Per la scuola veronese è invece fondamentale dopo la partita fare quindici minuti di corsa lenta e stretching”.
Sei mai stato vicino a una squadra di serie A?
“Paolo Mantovani mi aveva promesso di fare l’allenatore della Sampdoria con Eriksson. Ma poi il presidente mi disse che per la prima volta sarebbe venuto meno a una promessa, aveva stretto un accordo economico in Indonesia, dove volevano crescere calcisticamente. Mi fece lavorare con loro. Partecipammo con la Nazionale giovanile al campionato italiano Primavera senza far classifica. Giocavamo a Sestri Levante e la prima volta che ho visto quei ragazzi, mi veniva da piangere. Ma dopo due mesi massacravamo tutti e siamo arrivati terzi”.
Poi ti sei trasferito in Indonesia.
“Ho allenato quello che oggi è lo United Giacarta, mancava solo la matematica per vincere il campionato e mi hanno spostato alla Nazionale maggiore. In quattro anni ho girato tutte le isole, dalla Nuova Guinea al Borneo. Siamo stati la rivelazione dei Giochi d’Asia. La federazione giapponese mi fece un pre contratto, ma tornai in Italia per problemi familiari. Mi chiamò allora la Juventus per fare l’osservatore e ho passato due anni in aereo a girare una seconda volta il mondo”.
Sei riuscito a fermarti?
“Dissi a Moggi: Luciano, mi fermo qui. Non riesco più a tenere questo ritmo. Mi chiese un ultimo piacere, quello di andare in Africa per creare una sorta di college in Mali per fare crescere i talenti nel territorio senza sradicarli. Vado quaranta giorni in Mali, tenendo anche lezioni agli allenatori locali. Torno in Italia e mi richiamano in Africa per fare il ct della Nazionale maliana. Dopo cinque vittorie di fila, ero ormai là da quasi due anni, mi sostituiscono con un francese per una questione di sponsor. Io la merda l’ho sempre mangiata con dignità. Un gruppo terroristico voleva mettere una bomba per me. No, no, no, no! Nell’ultima conferenza stampa dissi: vi ringrazio tutti per l’esperienza che mi avete fatto fare. Che Allah vi perdoni”.
Hai allenato per anni anche i calciatori disoccupati nel periodo estivo.
“Ho fatto circa quindici raduni. Ho cercato di aiutare tutti a trovare una squadra, mettendo a calendario un numero incredibile di amichevoli. Insegnavo loro che da una situazione negativa si può sempre ripartire in maniera positiva. Recuperate il tempo con la famiglia, vedete chi vi vuole veramente bene e ripartite. Tanti di loro mi sono ancora grati e non si dimenticano di farmi gli auguri a Natale”.
Foto di copertina: U.C Sampdoria