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Russia, Kiev insiste perché i dirigenti stranieri abbandonino il paese: “A Mosca ancora 300 manager Usa e Ue, anche 13 italiani”

L'inaspettata tenuta dei consumi locali e le norme restrittive introdotte dal Cremlino rallentano l'esodo delle aziende straniere dalla Russia. L’Oréal, Colgate, Carlsberg, Unilever sono solo alcuni dei gruppi che continuano a vendere i propri prodotti. L'Ucraina chiede che si faccia di più per aumentare la pressione su Mosca

Mentre l’Unione europea si prepara ad emanare il decimo pacchetto di sanzioni contro Mosca, crescono le pressioni del governo ucraino sui dirigenti occidentali che ricoprono posizioni apicali in società russe. Per Kiev, infatti, la presenza (lecita) di membri europei e americani nei consigli di amministrazione rischia di indebolire gli sforzi per isolare la Russia sul piano internazionale. “Il lavoro dei vertici occidentali nelle aziende russe invia il falso segnale alla società russa e al mondo intero che Mosca non abbia fatto nulla di male” ha dichiarato Agiya Zagrebelska, esponente di spicco dell’Agenzia nazionale ucraina per la prevenzione della corruzione.

Il governo ha creato una banca dati pubblica che riporta i nomi di oltre 300 amministratori americani ed europei che siedono – senza violare alcuna sanzione – al comando di imprese russe. Tra i Paesi presenti nella lista ci sono la Germania con 40 dirigenti, gli Usa (30) e il Regno Unito (26). I settori maggiormente interessati sono invece la finanza e il commercio. Va detto che, all’indomani dello scoppio della guerra, molti dirigenti si sono dimessi, mentre altri sono rimasti adducendo i motivi più diversi, che vanno dal senso di responsabilità verso gli investitori a quello nei confronti dei dipendenti. Per quanto riguarda l’Italia, stando all’elenco stilato dai funzionari di Kiev, i manager ancora saldamente al comando dovrebbero essere tredici distribuiti tra le società Magnit, la più grande catena di supermercati russa, il fornitore di energia Rusenergosbyt, la casa farmaceutica Sandoz e le filiali e controllate di Unicredit e Intesa Sanpaolo.

La campagna condotta da Kiev è indirizzata a spingere i Paesi che la sostengono militarmente a introdurre dei vincoli alla possibilità, finora pienamente legittima, per i loro cittadini di ricoprire incarichi apicali nelle aziende russe. A confermarlo è stata la stessa Zagrebelska: “Vorremmo vedere più attività dei governi nel comunicare a questi manager le conseguenze della loro decisione di continuare a lavorare in Russia”. Se al momento il governo ucraino non ha sanzionato i dirigenti occidentali, Zagrebelska ha tuttavia sottolineato come gli sforzi dell’Agenzia anticorruzione siano “un avvertimento” e che i professionisti che rivestono posizioni chiave “potrebbero essere soggetti a restrizioni in futuro”.

Insomma, le pressioni di Kiev sui Paesi alleati per isolare economicamente Mosca sono molto forti. Anche perché la lista delle imprese europee e americane che sono rimaste in Russia è lunga. L’Oréal, Colgate, Carlsberg, Unilever sono solo alcuni dei gruppi che continuano a vendere i propri prodotti sul mercato russo. Niente di illecito, sia ben chiaro. Si tratta infatti di imprese che forniscono prodotti di largo consumo, soprattutto alimentari, che non sono soggetti a restrizioni. Inoltre, se per alcune società la scelta di rimanere è dettata dal timore di perdere un mercato di sbocco importante, per altre più che di una decisione si dovrebbe parlare di una strada obbligata. In molte, infatti, nei mesi scorsi si erano impegnate ad abbandonare la Russia, senza riuscirci. Il Cremlino, infatti, ha varato una serie di norme volte a rendere più difficoltosa la cessione delle attività, prima limitando le operazioni e poi imponendo uno sconto del 50% in caso di vendita.

A questo si aggiunge il fatto che le sanzioni occidentali che hanno colpito le banche e il sistema finanziario russo rendono sempre più faticoso operare nel Paese. Come riporta l’agenzia Bloomberg, la multinazionale britannica Reckitt Benckiser, che ad aprile ha dichiarato che avrebbe ceduto la proprietà dei suoi stabilimenti russi, finora non è riuscita a farlo. Anche la francese Danone a ottobre aveva annunciato la sua uscita dalla Russia senza trovare, però, acquirenti. Questo mentre Philip Morris, che si era impegnata a dismettere le sue attività nel Paese entro la fine del 2022, non ha ancora ottenuto l’approvazione da parte del Cremlino.

Un altro fattore che contribuisce a rallentare i piani di uscita dal mercato è la performance superiore alle attese dell’economia russa. Nonostante le previsioni catastrofiche, l’anno scorso si è chiuso con una contrazione del Pil del 2,5%: i consumi, insomma, tengono e così i profitti delle aziende. Non a caso, la scorsa settimana Unilever ha diramato una nota ai propri investitori per avvertirli dei rischi finanziari connessi all’abbandono della Russia, mentre British American Tobacco ha rivisto al rialzo le proprie stime sulle perdite in caso di uscita dal mercato russo. Nel frattempo, sul fronte sanzioni nei prossimi giorni la Commissione Ue dovrebbe presentare il decimo pacchetto di misure. Sempre secondo Bloomberg, Bruxelles dovrebbe imporre alle banche europee di fornire informazioni sugli asset della Banca centrale russa e di altre istituzioni statali che sono stati congelati dai precedenti provvedimenti. L’obiettivo è quello di utilizzare questi beni per finanziare la ricostruzione dell’Ucraina. Sulla base di un report della stessa Banca centrale russa del 2022, i funzionari europei stimano che le risorse immobilizzate nei conti delle istituzioni creditizie dell’Ue siano pari a 258 miliardi di dollari. “La Russia” ha dichiarato recentemente la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen “dovrà anche pagare per la distruzione che ha causato e dovrà contribuire alla ricostruzione dell’Ucraina”, aggiungendo di essere al lavoro per stabilire “come utilizzare i beni pubblici della Russia a vantaggio” di Kiev.