L’acqua italiana non è molto trasparente. Molte aziende del servizio idrico non pubblicano sui propri siti le informazioni relative ad appalti e forniture, né quelle su consulenti e collaboratori. Se poi si vanno a vedere le azioni specifiche per prevenire il malaffare, in molti casi le aziende non rendono disponibile il loro piano anticorruzione, nè una piattaforma efficace per raccogliere le segnalazioni dei whistleblower, né per garantire l’accesso civico a dati e documenti da parte dei cittadini.

Sono alcuni dei risultati illustrati nel report “Acqua”, il primo monitoraggio nazionale
sulla trasparenza e l’integrità aziendale del settore idrico italiano. Lo ha realizzato React, un centro studi con sede a Padova che si occupa di analisi di fenomeni criminali e assistenza a enti pubblici e privati nelle strategie di prevenzione dei reati e tutela dell’integrità.

React ha valutato un campione di 62 aziende idriche, da big come Acea a piccoli operatori locali, fra enti pubblici, società in-house, società partecipate o controllate e società private. Su un punteggio massimo di trasparenza pari a 33, attribuito in base a diversi indicatori, il valore medio riscontrato è un poco lusinghiero 17,29 (React non ha diffuso i punteggi delle singole aziende).

“Gli investimenti nel settore idrico, già stabiliti dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti per i prossimi anni, ammontano a 3,9 miliardi di euro, di cui 2,9 miliardi provenienti dal Pnrr“, commenta Lorenzo Segato, amministratore di React. Di fronte a una pioggia di denaro pubblico destinato a migliorare l’efficienza del servizio idrico, tema tornato di grande attualità anche per l’emergenza siccità, “le aziende del settore idrico non sono sufficientemente organizzate per proteggersi da corruzione e frodi”.

Ecco qualche dato in dettaglio. Solo 22 aziende su 62 (il 35,5%) pubblicano
sul proprio sito internet le singole procedure di appalto in formato aperto e facilmente consultabile. Otto di loro (il 12,9%) non pubblicano alcun dato al riguardo. Sono invece 19 (30,6%) le aziende che forniscono zero informazioni su consulenti e collaboratori, nonostante esista una legge (il decreto legislativo 33/13) che lo prevede. Solo 24 (38,7%) soddisfano in pieno l’obbligo.

Sul fronte del whistleblowing, la segnalazione di potenziali illeciti da parte di personale interno raccomandata dalle istituzioni internazionali e strumento obbligatorio dal 2017 per le società pubbliche e alcune tipologie di private, solo 17 (27,5%) hanno predisposto una piattaforma informatica facilmente accessibile dal segnalante. In 27 casi (43,5%),
la piattaforma neppure esiste, e in 11 (17,7%) non esiste neppure una procedura interna che agevoli e tuteli i segnalanti.

Una disattenzione che non stupisce, visto che 12 aziende (19,3%) non si preoccupano neppure di indicare i dati completi relativi agli organi di indirizzo politico, anche questo imposto dalla legge per le società pubbliche. E se un cittadino o un’associazione volessero vederci chiaro in un appalto o in qualche altra attività di rilievo pubblico? Anche qui, pur in presenza di un obbligo di legge, 11 enti (17,7%) non pubblicano alcuna informazione sulle procedure da seguire. Solo 27 (43,5%) mettono a disposizione una piattaforma specifica o almeno un indirizzo email.

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