Metti insieme i servizi già esistenti ed erogati a vari livelli, aggiungi nuovi organi decisionali, di coordinamento e di controllo, con tanto di pletora di acronimi, condisci con un gioco di prestigio tra invalidità e prestazioni sanitarie, oltre a un sacrosanto e sano ventaglio di attività di prevenzione e una revisione dei criteri di accreditamento di chi eroga i servizi, mescola bene senza aggiungere denaro et voilà: il ddl Anziani non autosufficienti è servito. Del resto il primo a sostenere che la norma intende cambiare il quadro prima che il contenuto è uno dei padri della riforma, Cristiano Gori. Il coordinatore del Patto per un Nuovo Welfare sulla Non Autosufficienza, anche a tutela del provvedimento davanti ai suoi detrattori, tiene a sottolineare come l’idea di fondo sia innanzitutto quella di creare una nuova infrastruttura che metta in rete prestazioni e servizi e sia trasversale ad Ats, Comuni, Regioni e Inps. “Le titolarità non si spostano”, è il mantra. Resta il fatto che se non verranno iniettati fondi ad hoc, al momento non previsti, la riforma arriverà a un binario morto.
Ed è essenzialmente su questi due nodi, la tutela dei diritti esistenti e la copertura finanziaria adeguata, che si sviluppano le tensioni intorno al provvedimento che in estrema sintesi ambisce (nientemeno) a risolvere il problema che affligge 1,4 milioni di anziani non autosufficienti e gli altri 2,2 milioni di coetanei con patologie e disabilità gravi oltre alle famiglie di entrambi, considerato che, come ammettono anche i tecnici del Senato nella relazione alla misura, dopo la perdita del lavoro, la non autosufficienza è ormai “la prima causa di impoverimento delle famiglie italiane“.
Cosa vuol dire non autosufficiente e quanto costa l’assistenza – Per avere una minima idea di cosa si tratti in termini puramente economici, basta pensare che in Italia il costo medio al giorno di un ricovero in ospedale è di 750 euro, somma che arriva anche a quadruplicare se si parla di ricoveri ad alta intensità, mentre per gli hospice siamo sui 300 euro al giorno e le Rsa intorno ai 100. A casa … dipende. Bisogna innanzitutto chiarire che con il termine non autosufficienti, non si intendono persone sole che hanno bisogno di compagnia e di una cameriera, ma persone che hanno bisogno dell’assistenza di qualcun altro per riuscire a svolgere almeno 3 su 6 delle attività ordinarie della vita quotidiana: lavarsi, nutrirsi, vestirsi, andare in bagno, cambiare posizione e muoversi da uno spazio all’altro. La categoria include chi soffre di un grave decadimento cognitivo e non ha il controllo su quello che fa. In pratica persone che non possono essere lasciate mai sole e che, soprattutto nel caso degli anziani, potrebbero avere altre patologie che rendono necessario l’intervento quotidiano di infermieri e operatori socio sanitari, oltre a quello periodico di fisioterapisti, logopedisti, medici specialisti, terapisti occupazionali, etc. Quanto costa? Per un’assistenza che preveda soltanto una badante fissa con sostituzione nel weekend, oltre a un intervento quotidiano di infermiere per le terapie e di oss per i pasti e l’igiene, siamo sopra i 100 euro al giorno, cui vanno aggiunte le normali spese di casa.
Ma poi la realtà e i bisogni delle persone, specie se anziane e malate, non sono mai statici. E il problema è sempre più diffuso. Lo sanno anche in Parlamento. Nella relazione tecnica alla norma si legge che in Italia “circa un anziano su due soffre di almeno una malattia cronica grave o è multicronico, con quote tra gli ultraottantenni rispettivamente del 59 e 64%. … Ne consegue che una quota consistente e crescente di anziani richiede interventi sanitari ed assistenziali continuativi. Situazione problematica, che tende ad aggravarsi nel tempo”. Gli stessi tecnici del Senato ammettono che “si tratta di un carico assistenziale crescente, di una sfida inedita ed impegnativa tanto per le famiglie che per l’intero sistema di welfare” e che “il nostro Paese affronta la sfida con preoccupante ritardo“.
L’Italia parte ora con la prevenzione – E così nel 2023, a due anni dalla pandemia che ha portato la situazione degli anziani non autosufficienti davanti agli occhi di tutti, si parte dall’abc, la prevenzione. Il punto è centrale nelle pieghe del Pnrr che, pur confondendo prevenzione e cura, trattano del tema cui si ricollega il ddl Anziani quando prevede varie forme di promozione delle attività svolte dalle persone anziane; di attività di ascolto e di sostegno alla socializzazione (facendo leva su terzo settore e volontariato) e di percorsi per contrastare l’isolamento e la marginalizzazione; la “promozione dell’attività fisica sportiva nella popolazione anziana” e la “promozione della salute e della cultura della prevenzione lungo tutto il corso della vita attraverso apposite campagne informative e iniziative da svolgersi in ambito scolastico e nei luoghi di lavoro“. Il testo parla anche di “interventi di sanità preventiva” a domicilio e di “azioni facilitanti l’esercizio dell’autonomia e della mobilità nei contesti urbani ed extraurbani, anche mediante il superamento degli ostacoli che impediscono l’esercizio fisico, la fruizione degli spazi verdi e le occasioni di socializzazione e di incontro”. Due punti che lasciano un po’ perplessi se si pensa alle difficoltà incontrate con le somministrazioni a domicilio nella recente campagna vaccinale anti Covid e all’annoso e triste problema delle barriere architettoniche.
Fin qui tutto più o meno a gratis. Poi c’è il cohousing, cuore della Missione 5 del Pnrr che destina ben 3,3 miliardi alle nuove forme di domiciliarità e di coabitazione solidale domiciliare per le persone anziane. Che dovrebbero essere frutto anche della riconversione delle Rsa, a loro volta oggetto di una sacrosanta e a lungo invocata revisione dei criteri di accreditamento. Sebbene non sia chiaro che fine farebbero i pazienti delle Rsa non autosufficienti e pluripatologici per i quali il cohousing è fantascienza. Seguono i corsi di informatica e nuove tecnologie per mantenere viva la partecipazione alla vita sociale (o dei social) e percorsi di “per il mantenimento delle capacità fisiche, intellettive, lavorative e sociali”, con l’obiettivo “di preservare l’indipendenza funzionale in età avanzata e mantenere una buona qualità di vita”. Non mancano infine programmi per “favorire il turismo del benessere e il turismo lento come ricerca di tranquillità fisiologica e mentale per il raggiungimento e il mantenimento di uno stato di benessere psico-fisico, mentale e sociale, che va oltre la cura delle malattie ovvero delle infermità”. Ma neppure gli interventi per la solidarietà e la coesione tra le generazioni tramite attività nelle scuole primarie, secondarie e le università, da concretizzare con incontri, seminari o stage in strutture residenziali intesi anche come esperienze extracurricolari che facciano maturare ai ragazzi dei crediti formativi.
Invece per chi è già non autosufficiente si mescolano le carte – Fin qui tutto più o meno gratis e più o meno di buon senso. Le cose si fanno più difficili quando si passa a chi è già nella condizione di non autosufficienza. Sempre in scia al Pnrr (Missione 5 e 6) sulla carta il disegno di legge prevede in sostanza una riorganizzazione delle varie forme di assistenza e cura riunendo sotto un’unica cabina di regia Inps, Ssn, Ats, Regioni, Province e Comuni e le reciproche prestazioni. Quindi, certificazione, sostegno economico, assistenza sanitaria e assistenza sociale etc, secondo modalità e forme articolate in maniera diversa da come avviene oggi. Il dichiarato obiettivo è quello di razionalizzare, omogenizzare e rendere i processi più fluidi in tutto il Paese, allineando i servizi agli standard internazionali ed evitando doppioni allo Stato ma anche all’utente.
E quindi? Il punto è che quando si rimescolano le carte, le acque si confondono. In questo caso lo fanno talmente tanto da aver provocato una levata di scudi da parte delle associazioni più attente all’essenza delle normative vigenti, come Medicina Democratica, Fondazione Promozione Sociale, il Cub Sanità Nazionale, l’Associazione Diritti Non Autosufficienti insieme a molte altre che sono riunite nel Coordinamento per il diritto alla sanità per le persone anziane malate e non autosufficienti, che stanno da settimane cercando un dialogo con il governo e il parlamento sui punti critici della normativa. Con tanto di proposte emendative che sono state inviate in Commissione Affari sociali e sanità di Camera e Senato in questi giorni.
“Vogliono tagliare fuori gli anziani dal Ssn” – Due gli esempi chiave per capire la posizione. Il primo è prevalentemente teorico: il nome del cappello che racchiuderà il nuovo istituto è Sistema Nazionale per la popolazione anziana non autosufficiente (Snaa) che rieccheggia molto da vicino quello del Servizio Sanitario Nazionale. Considerato che sotto di esso verranno coordinate promiscuamente prestazioni sanitarie (cioè universali, valide per tutti indiscriminatamente, secondo il nostro ordinamento) e prestazioni sociali (cioè soggette alla disponibilità di budget e/o di determinati parametri reddituali dell’utente) e che il testo di legge è farcito di riferimenti al vincolo della disponibilità di risorse, ne deriva la richiesta quanto meno di garanzie che blindino i (pochi) diritti che ci sono rimasti in ambito sanitario. Il timore principale è infatti che, al di là della bontà delle intenzioni, alla prova dei fatti la riforma finisca paradossalmente con il salvataggio del Sistema sanitario nazionale a spese della popolazione anziana che ne verrebbe esclusa. Che sarebbe tra l’altro un boomerang pazzesco, se si pensa che una delle prime generazioni destinate a subire gli eventuali effetti deteriori di una rivoluzione di questo tipo sarebbe proprio quella di chi è al governo in questo momento.
“Ora l’assistenza sanitaria ai disabili si paga?” – Non aiuta poi a sedare gli animi una questione affatto teorica nè secondaria. La norma prevede la revisione dell’assegno di accompagnamento per l’invalidità, i 500 e rotti euro mensili attualmente riconosciuti agli invalidi civili al 100% sulla base della valutazione di una commissione mista Inps e Asl, indipendentemente dal reddito dell’invalido e a titolo risarcitorio per la minorazione di chi dipende in tutto e per tutto dall’aiuto di altri per le funzioni vitali. Anche qui la proposta appare neutra in prima battuta: si parla della sperimentazione di un assegno unico universale che inglobi l’accompagnamento, le prestazioni sociali e quelle sanitarie rispettivamente in capo ad Inps, Comuni e Asl, da corrispondere a scelta del titolare sotto forma di denaro oppure di prestazioni, per un totale che non potrà essere inferiore alla somma delle parti. Una proposta improponibile, fa notare il presidente di Confcommercio Salute sanità e cura, Luca Pallavicini, non tanto perché tocca l’assegno quanto perché con il solo fatto di convertire la pensione di invalidità in ore di infermiere o simili, introduce per legge il principio che un malato cronico non autosufficiente debba pagarsi le prestazioni sanitarie che dovrebbe comunque ricevere, se gli sono dovute per le sue condizioni di paziente. Invece aumentarle facendole pagare all’utente con il suo assegno di invalidità non è accettabile.
“Il diritto alle cure è un diritto costituzionale, vogliamo tutelare queste persone nella dignità della morte oppure no?”, si chiede Pallavicini secondo il quale “tutto ciò che è stato detto sulla domiciliarità non potrà funzionare. Se fosse così come dicono, avrebbero la consapevolezza che il diritto alle cure delle persone non autosufficienti sarebbe a totale carico del Ssn, le Asl non ce la fanno e chiedono il contributo alla famiglia tramite l’accompagnamento che non è neanche sufficiente a coprire le spese. Molto comuni già non erogano le prestazioni”. Ma gli enti pubblici sarebbero in grado di erogare queste prestazioni o no? “No, non è un paese strutturato per fare assistenza domiciliare di qualità”, è la secca risposta. E così chi diventa non autosufficiente è destinato alla Rsa, con un costoso periplo tra le cure intermedie negli ospedali e il domicilio. “Un pantano che non rende la vita serena a nessuno. E davvero il sistema è in grado di dare all’anziano oss, infermiere, medico e una badante nelle 24 ore? Non ci credo, se fosse così l’assistenza in Italia non sarebbe nelle condizioni drammatiche in cui si trova oggi”, conclude.
Gori, che è anche ordinario di Politiche sociali all’Università di Trento, dal canto suo è fiducioso nel fatto che i regolamenti che saranno definiti con i decreti delegati saranno la chiave per appianare i problemi e accorciare le distanze tra le diverse visioni del sistema. “Non penso che sia un problema insuperabile, ma penso che l’intreccio tra l’utilizzo dell’opzione servizi della prestazione e la rete esistente dei servizi locali sia un aspetto da considerare con attenzione a livello di normazione attuativa, perché l’opzione servizi della prestazione universale deve essere sempre chiaramente un’aggiunta ai servizi del welfare locale, non una sostituzione”, risponde interpellato in merito da ilfattoquotidiano.it, non vedendo ostacoli alla definizione per regolamento di prestazioni aggiuntive – sia quantitativamente che qualitativamente – e non sostitutive delle prestazioni universali.
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