di Marcella Loporchio*

Ma che colore ha l’inclusione? Il fucsia al femminile e l’azzurro al maschile? E gli altri colori dell’arcobaleno li lasciamo fuori alla libertà d’interpretazione? No, non credo valga questa indicazione, perché se nei contesti aziendali si parla e si cerca di creare le giuste condizioni affinché le persone, di qualsiasi genere, etnia, colore, credo e così via si sentano rappresentate è necessario prendere in considerazione tutti i colori e le loro sfumature.

La tematica è meno semplicistica di come la sto scrivendo ed è ormai attuale più che mai, vista anche la spinta verso la Certificazione di Parità di Genere che stanno avendo tutte le aziende. Partire e ritornare ai concetti di persona e rispetto è fondamentale. Se da un lato si investe in azioni che vadano a supporto del benessere aziendale e a offrire soluzioni che gratifichino gli sforzi profusi in azienda, dall’altro a volte non si prendono in considerazione le differenze delle unicità delle persone. Pensare che le soluzioni possano essere positive per ogni persona è errato, allo stesso tempo è comprensibile che non tutte rimangano soddisfatte.

La differenza è nel modo. Se adotto delle politiche, per esempio di tipo retributivo, lasciate alla libertà e facoltà di interpretazione di pseudo Kpi (Indicatore chiave di prestazione), è normale che le persone si sentano discriminate, così come se interpreto gli stessi non tenendo in considerazione il lato umano che può portare le persone ad agire in modo meno performante in alcune situazioni. C’è bisogno che le azioni siano condivise, anche discusse nel caso, e poi siano comunicati i tempi, i modi e le scelte fatte.

I contesti aziendali stanno subendo un contraccolpo durissimo a fronte di programmi messi a sistema che avrebbero dovuto migliorare l’andamento, le performance, il benessere e invece portano a dimissioni di massa.

Le persone ora hanno consapevolezza e scelgono di non subire più ambienti a tutto tondo che non siano veramente inclusivi. Cosa si può fare in merito? Ritengo sia fondamentale non trascurare i segnali tangibili che in ogni azienda sono presenti, quali il minor rendimento, una scarsa attenzione ai cambiamenti e ancor più un’assenza di interventi e manifestazione di idee. Gli Hr devono porsi una domanda: cosa non sto offrendo ai miei colleghi/e per sentirsi coinvolti nel processo aziendale come parte attiva?

Se non si parte da questa riflessione, ogni azione sarà sempre vista come imposta dall’alto e anche tutti i percorsi di sensibilizzazione sui pregiudizi, bias, molestie e discriminazioni non saranno accolti come processi utili e formativi, ma come una perdita di tempo finalizzata a “far vedere che si fa qualcosa”. La questione è profonda e non può stigmatizzarsi dietro alla frase “tu non puoi capire” che richiama il titolo del mio libro appena uscito – dove cerco di fare una disamina a tutto tondo sulle tematiche di inclusione e pratiche attuative. Un libro nel quale ho avuto modo di approfondire ogni aspetto, di mettere in luce un metodo certificato dalle sperimentazioni adottate in molte aziende, ma non è la risposta alle criticità di tutte le aziende.

Porto un esempio: vi siete mai domandati quanti generi ci sono e soprattutto il significato di alcuni termini quali pangender, genderqueer e agender? Credo che molti si siano fermati al transgender perché è il più comune; e pochi siano andati oltre a comprendere la cultura dell’altro/a e come renderla patrimonio di abilità condivise in ogni ambiente.

Ecco, è proprio da qui che le organizzazioni aziendali devono ripartire, da quella voglia di conoscere e mettersi in discussione, domandando e misurandosi anche con i propri limiti e cercando di creare ambienti nei quali il linguaggio inclusivo sia la caratteristica distintiva di quel contesto, che i dipendenti e le dipendenti si sentano ugualmente rappresentati e tutelati, dove le possibilità di crescita non siano appannaggio di un genere. Capendo che non basta parlare di politiche a favore della maternità e della paternità senza tener conto che sono discriminanti, nel momento in cui si dice “tu non puoi capire” a una persona che non ha figli e la si considera meno solo perché vive così (imparare che ognuno/a ha una sua storia e che non è tenuta/o a condividerla con tutti/e).

Includere vuol dire valorizzare le unicità e riconoscere che siamo tutti persone con bisogni speciali in circostanze diverse e che la normalità, determinata da un gruppo di maggioranza, non è sinonimo di giustizia. E’ solo un modo per semplificare ed etichettare chi normale non è. Personalmente ho sempre amato sentirmi dire “tu sei strana”!

*Consulente aziendale da oltre 30 anni esperta sulle tematiche della divesity, equity & inclusion

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