Cinema

Kill me if you can, tra Prova a prendermi, Rambo e Pasolini. Il magico documentario sull’uomo che compì il dirottamento più lungo della storia

Alex Infascelli (Almost Blue, Mi chiamo Francesco Totti) racconta la vita involontariamente spericolata di Raffaele Minichiello. Avellinese che nel 1969 a 20 anni dirottò un boeing TWA da Los Angeles a Roma.

di Davide Turrini

Un po’ come in Chinatown di Polanski, con il protagonista Jack Nicholson che per mezzo film recita con il naso vistosamente incerottato, nel documentario Kill me if you can emerge il dettaglio del dito steccato dell’altrettanto assoluto protagonista (curiosamente ferito) Raffaele Minichiello. Il nuovo documentario di Alex Infascelli – nelle sale italiane il 27,28 febbraio e 1 marzo 2023 – incentrato sulle vicende biografiche del signore italiano, pardon avellinese, che nel 1969 dirottò un boeing statunitense di linea, facendosi “portare” da Los Angeles a Roma è, letteralmente, un magico e affabulatorio intarsio, un magistrale sovrapporsi delle mille visioni che negli ultimi 50 anni ci ha regalato il cinema. Sfogli l’album di una vita (involontariamente) spericolata come quella di Minichiello e scopri ad ogni pagina uno spunto che ha aperto le porte delle storie mirabolanti di Prova a prendermi, Rambo, Jackie Brown, del cinema di Pasolini, Germi o Rossellini.

Kill me if you can inizia dal dirottamento armato con lunghezza chilometrica record che diventa diretta mondiale. Il ventenne Minichiello sale con un fucile che spaccia per canna da pesca su un TWA che poco dopo mezzanotte del 31 ottobre 1969 decolla da Los Angeles per atterrare dopo un’ora a San Francisco. Solo che il volo per i pochissimi passeggeri e i membri dell’equipaggio è appena iniziato e durerà un bel po’. Il ragazzo di umilissime origini avellinesi, immigrato a Seattle con la famiglia appena sette anni prima, poi finito marine in piena trincea vietnamita, costringerà a far volare l’aereo prima a New York poi nel Maine con direzione Il Cairo; anche se la vera meta, fermandosi per un ulteriore rifornimento in Irlanda, non è altro che l’Italia, a Roma. Kill me if you can inizia, e prosegue, però senza alcun spargimento di sangue. Potenza della ricostruzione del vero attraverso un paio di testimoni presenti sull’aereo nel ’69 e poi affidandosi ai documenti giornalistici dell’epoca, alla detenzione e al processo del ragazzo in Italia (con il dileggio della lenta e tenue giustizia italiana da parte degli americani), e alla silhouette del paisà che diventa celebrità, Infascelli mostra un Minichiello obiettivo fisico di reporter esteri e di fotografi nostrani, cameriere di ristorante ricercato dai clienti (in un frammento, al tavolo, c’è perfino Walter Chiari), barista che diventa papà consegnando tramezzini in mezzo alle raffiche di mitra del terrorismo rosso, benzinaio tra le delicate ambasciate di Israele e Stati Uniti.

In mezzo emergono due mogli morte, una vendetta impossibile contro i medici modello Taxi Driver, figli abituati a sparare in salotto, rinascite spirituali, bibbie sul comodino, la cittadinanza americana che riappare per caso e un segreto inconfessabile che arriva quando stanno rullando i titoli di coda come nei migliori thriller. “All’inizio la fascinazione fu per il gesto del grande dirottamento. Scoprii quella faccia incredibile di Raffaele e boom. Poi quando ho letto la sua storia ho trovato che l’episodio del Vietnam e del dirottamento fossero solo incipit di tutto il resto che a Raffaele succede dopo”, spiega a FQMagazine il regista Alex Infascelli. Kill me if you can (è la scritta che Minichiello aveva sull’elmetto in Vietnam ben prima del Born to kill di Kubrick) si apre così oltre il primo piano classico e stucchevole dell’intervistato da documentario un tanto al chilo che riempie gli scaffali dello streaming. “Mentre riannodavo i fili del racconto mi ritrovavo tra Un pomeriggio di un giorno da cani, Airport 75, Il cacciatore, Il giocattolo, ma anche il Renato Pozzetto di Sono fotogenico – continua Infascelli – se vi mostrassi la presentazione cartacea con cui andavo in giro nel 2017 a cercare produttori, vedreste la griglia fotografica che avevo stampato e tenevo in mano: Forrest Gump, Rambo, Taxi driver, Gran Torino, e sotto ad ogni fotogramma di film avevo messo le foto di Raffaele una per una nell’evolversi della sua vita. Impressionante”.

Tanti i pregi di questo doc sui generis a partire dalla brillante cura con frammenti e materiali d’archivio punteggiano e puntellano la storia con la freschezza e il ritmo del “mai visto” per una sorta di premio Oscar impossibile al production designer. “Il mondo è andato avanti per la grande volontà di sopravvivenza, per chi ha fatto cose più grandi rispetto alle proprie vite e alle vite degli altri. Raffaele non voleva essere la bandiera dei pacifisti nel mondo, anzi, lui voleva zompare su un aereo e tornarsene a casa; allora però il gesto fu enorme ed accese una lampadina fuori dagli Usa su quello che era la vera condizione psicologica di chi andava in guerra e tornava traumatizzato. In quel momento con pochi giornali e tv a documentare i fatti, un gesto così valeva come un tweet”.

Quando vi capiterà di vedere questo piccolo gioiello che formalmente è registrato sulla strada intrapresa dai Lumiere, ma è immerso fino al collo nel percorso di Melies, palpiterete anche di fronte ai fotogrammi di una storia d’amore mai conclusa e consumata, quella di Raffaele per Tracy una delle hostess rimaste sull’aereo dirottato fino a Roma (il fermo immagine su lei che lo guarda fuori campo in tribunale è da brividi), su cui Infascelli cuce un brillante ricamo, come almeno su un’altra mezza dozzina di sottotrame, di affabulazione romantica e magmatica suspense. “Non so se ha senso parlare di karma, ma come mi accadde per l’autista di Kubrick in S for Stanley, parlando con Raffaele ho scoperto che da ragazzino acquistai una tavola da surf proprio nel suo negozio di fianco alla pompa di benzina”, chiosa il regista romano. E il dito steccato che Minichiello mostra per mezzo film? È vero? O è messa in scena? “Raffaele è arrivato in scena così. Noi eravamo molto perplessi a girare. Gli abbiamo chiesto più volte cosa fosse successo, ma lui non ci diceva niente. A un certo punto finite le riprese, mi fa ‘te lo dico, ma non dirlo a nessuno: mi sono sparato sul dito pulendo il fucile”.

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