È difficile comprendere come stia cambiando l’industria dell’automobile e quali siano le prospettive di lungo termine che finiranno per interessare gli automobilisti, ma anche interi sistemi industriali, dopo la decisione del Parlamento Europeo di vietare la vendita di veicoli con motori endotermici a partire dal 2035. Abbiamo provato a fare chiarezza su ciò che sta accadendo attraverso dieci domande: una sorta di vademecum sulla mobilità attuale e quella che vivremo nel futuro prossimo. Ecco quindi un “botta e risposta” sullo scenario che si va configurando.

1) Cosa ha stabilito l’Unione Europea per il 2035?

A partire dal 1° gennaio di quell’anno, i grandi costruttori di auto non potranno più vendere veicoli che producono emissioni di anidride carbonica allo scarico, come i veicoli a benzina, diesel ed ibridi. Quindi, allo stato attuale delle cose, potranno essere commercializzate e immatricolate solo le automobili elettriche. Attenzione, però: l’Eurocamera riconosce la natura inquinante di benzina e diesel di origine fossile ma non quella del motore a combustione in sé. Ciò lascia virtualmente la porta aperta alla produzione e immatricolazione di auto a combustione interna purché alimentate da idrogeno verde (che assicura le agognate emissioni zero di CO2 allo scarico) o carburanti sintetici climaticamente neutri (di cui si parla più avanti), a patto che le emissioni allo scarico siano per l’appunto pari a zero. Ciò detto, le auto termiche e ibride potranno circolare dopo il 2035? La risposta è affermativa: ad oggi non è stato istituito alcun tipo di bando alla circolazione stradale di questo genere di vetture (immatricolate prima del 2035). Non sarà quindi proibito guidarle o comprare auto usate a benzina o a gasolio. Oltretutto i piccoli costruttori di automobili – quelli che ne fabbricano meno di 1000 all’anno – potranno continuare a fabbricarle.

2) Da qui al 2035 come è articolato il programma “green” della UE?

Entro il 2030, uno dei target è ridurre del 55%, rispetto ai valori del 2021, le emissioni di CO2 generate dalle automobili e andare verso l’azzeramento completo nel 2035. Tuttavia, è prevista una tappa intermedia nel 2025: in quell’anno la Commissione Europea dovrà presentare una metodologia per valutare e comunicare i dati sulle emissioni di anidride carbonica generate durante l’intero ciclo di vita delle autovetture (cioè prendendo in considerazione pure l’impatto climatico generato dalla produzione e dallo smaltimento e non solo le emissioni di CO2 allo scarico) vendute sul mercato dell’UE. Entro dicembre 2026, poi, Bruxelles dovrà monitorare il divario tra i valori limite di emissione e i dati reali sul consumo di carburante ed energia, trovando una quadra fra i target ambientali, sociali e industriali. Sempre dal 2025, infine, la Commissione dovrà pubblicare, con cadenza biennale, una relazione per valutare i progressi compiuti verso la mobilità a zero emissioni.

3) Cosa è l’“Euro 7” e perché c’è tanta polemica su questo standard di omologazione?

Come noto, sin dall’avvento delle automobili con marmitta catalitica, le vetture sono state progressivamente categorizzate in classi inquinanti (Euro 1, Euro 2, etc) in base al loro impatto ambientale, tenendo conto non solo delle emissioni di anidride carbonica generate allo scarico ma anche di quelle di altre sostanze prodotte durante il loro utilizzo, come gli ossidi di azoto e il particolato. Nel corso degli anni l’efficientamento dei motori, la loro elettrificazione (auto ibride) e il perfezionamento dei sistemi di post trattamento dei gas di scarico, ha consentito ai veicoli tradizionali di diventare sempre più puliti. Attualmente, lo standard per l’immatricolazione di auto di nuova fabbricazione è l’Euro 6 d. Oggi, però, fanno discutere gli standard Euro 7 (in vigore dal 2025) come ulteriore step evolutivo dei motori termici e ibridi prima dell’arrivo del 2035.

I costruttori denunciano infatti alle Istituzioni che gli investimenti per adeguare le produzioni all’Euro 7 rischiano di rendere il costo delle auto ancora più elevato e distrarre fondi destinati all’elettrificazione. Per giunta a fronte di vantaggi ambientali, quelli che porterebbe l’Euro 7, assai limitati rispetto all’attuale Euro 6 d. In altri termini, per i costruttori non si possono sommare agli investimenti in corso per garantire la totale elettrificazione a quelli necessari a rispettare l’Euro 7, pronto a entrare in vigore da luglio 2025. Ecco perché molte aziende del settore chiedono una moratoria sull’Euro 7 al fine di concentrarsi sulla elettrificazione totale dei veicoli. Introdurre l’Euro 7, a detta dei costruttori, significa chiedere alle case automobilistiche di realizzare motori che avranno una vita utile assai breve prima di essere resi fuorilegge dalle decisioni prese per il 2035.

4) Perché alcune multinazionali europee invitano a un approccio più equilibrato sull’elettrificazione?

Perché in ballo c’è un asset strategico europeo, quello dell’automotive, che rischia contraccolpi negativi. Un concetto (nuovamente) esplicitato sulle colonne del Sole 24 Ore anche da Luca de Meo, numero uno del Gruppo Renault (colosso impegnato in un piano di elettrificazione su larga scala) e numero uno del’ACEA (l’associazione continentale dei costruttori), che è tornato a chiedere all’Europa un approccio strategico improntato alla neutralità tecnologica nonché una politica industriale che salvaguardi gli interessi europei. “Ci muoviamo in un contesto di regolamenti sempre più severo”. Oltre allo stop alla produzione di auto a motore endotermico dal 2035, “ci stanno pure chiedendo di fare un Euro 7 che tecnicamente è infattibile”. De Meo fa riferimento al fatto che “per come è scritta la norma oggi, tutti i motori a combustione interna andranno fuori dal mercato dal 2025”. Ma ciò apre la strada a due rischi. Il primo è rappresentato dalle aziende “cinesi, che hanno più controllo di noi sulla catena del valore (sono i maggiori produttori di batterie e controllano la catena del litio necessario per costruirle), e possono utilizzare l’elettrico per conquistare quote”. Il secondo è “l’asimmetria a livello di competizione tra le ‘placche’ America, Europa e Cina che le autorità devono correggere. Non voglio parlare di protezionismo. Si tratta di non essere naïf e di fare rispettare un principio di reciprocità”.

“Le regolamentazioni devono rispettare il principio della neutralità tecnologica. Noi produttori di auto intendiamo dire la verità. E la verità è che dobbiamo guardare all’intero ciclo, cradle to grave (dalla culla alla tomba, ndr), e non al tank to wheel (dal serbatoio alla ruota, ndr). Così, se il nemico è la CO2, ci si apre ad alternative. Che possono essere il motore a combustione con dei mix di carburanti meno impattanti come gli e-fuel o il biodiesel. Ma nella normativa europea non è previsto”. E se le previsioni dell’Europa in merito alla mobilità elettrica fossero sbagliate? “Per adesso abbiamo sentito commissari dirci che se qualcosa non funzionerà si potrà correggere la rotta nel 2026 o 2027. Piccolo particolare: i costruttori hanno già impegnato qualcosa come 250 miliardi di euro di investimenti. Non possono dirci “abbiamo scherzato”.

C’è invece chi, ha preso una posizione più netta e opposta. Come la Responsabile Sostenibilità di Polestar, brand sotto il controllo dei cinesi di Gruppo Geely, Fredricka Klaren: “Non possiamo continuare a utilizzare combustibili fossili”. La manager ritiene che l’unica strada perseguibile sia quella della tecnologia elettrica a batteria: “La nostra strategia climatica si basa sull’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change). In Polestar vogliamo essere neutrali dal punto di vista climatico entro il 2040 e dimezzare le emissioni entro il 2030. Non è solo quel che possiamo fare ma, soprattutto, è ciò che gli scienziati del clima ci dicono di fare. Abbiamo solo sette anni prima di raggiungere 1,5 gradi di riscaldamento globale. Qualsiasi cosa dopo il 2030, non ci interessa”.

5) Perché si parla di “rischi sociali” dell’elettrificazione?

Un quesito che ha più di una risposta. Dal lato del consumatore, il problema in prospettiva è quello del costo delle auto elettriche, fino al 50% più elevato rispetto a quello delle equivalenti termiche: per alcuni costruttori si rischia di trasformare la mobilità privata in un lusso per pochi, specie se il prezzo delle batterie – che rappresentano la voce di spesa più ingente nella fabbricazione di un veicolo elettrico – non scenderà drasticamente. Dal lato occupazionale, invece, la questione è che fabbricare auto elettriche richiede investimenti ingenti e una forza lavoro minore rispetto alla produzione di auto tradizionali. Un mix di fattori da cui consegue che la transizione potrebbe costare il posto di lavoro a decine di migliaia di persone. Prospettive che atterriscono il comparto automotive nostrano, che vale un indotto da oltre 700 aziende (il 33,3% di 2.202 presenti sul territorio nazionale) per un fatturato di circa 17 miliardi l’anno. Realtà che danno lavoro a quasi 60 mila persone. Mentre in Europa questa industria pesa per 13 milioni di posti di lavoro, che equivale al 17% della popolazione attiva, l’8% del Pil, 80 miliardi nella bilancia commerciale continentale, 400 miliardi di tasse legate alla mobilità.

Per Adolfo De Stefani Cosentino, presidente di Federauto, l’associazione di rappresentanza dei concessionari automobilistici, la situazione è critica: “Pur condividendo l’obiettivo di azzerare le emissioni dei veicoli, restiamo convinti che l’arco temporale previsto e dunque un’interruzione così brusca della produzione e commercializzazione di veicoli a combustione interna metterà a rischio non solo la competitività delle imprese italiane ed europee in un settore strategico dell’economia, ma soprattutto decine migliaia di posti di lavoro in tutta Europa, a vantaggio dei competitor internazionali, principalmente cinesi, i quali hanno anche la leadership tecnologica sulle batterie che alimentano i veicoli elettrici. È evidente che l’abbandono del diesel e benzina in un così breve lasso di tempo non andrà a vantaggio né dell’industria, né delle imprese dell’indotto distributivo e di assistenza post-vendita dei veicoli, né dei consumatori italiani ed europei che già stanno sopportando un aumento dei prezzi consistente”.

Tuttavia, secondo uno studio sull’impatto economico del passaggio dal termico all’elettrico realizzato da Motus-E e CAMI (il Center for Automotive and Mobility Innovation del Dipartimento di Management dell’Università Ca’ Foscari Venezia) le cose starebbero diversamente: “Considerando le nuove sotto filiere della mobilità elettrica i posti di lavoro del settore auto possono aumentare del 6% entro il 2030. Un incremento subordinato alla lungimiranza della politica industriale dell’immediato futuro, a cui sommare altri 7.000 nuovi occupati solo nel segmento infrastrutture ed energia al servizio della eMobility”.

Per Massimo Nordio, presidente di Motus-E, è necessario “puntare subito sulle tecnologie in espansione, perdere tempo vorrebbe dire indebolire ulteriormente il settore e cedere ad altri Paesi la nostra leadership nella componentistica”. “La filiera italiana dell’auto ha il potenziale per rimanere protagonista nell’industria. Ciò a patto che gli investimenti in nuove competenze e l’azione di riposizionamento siano rapidi, mirati e sostenuti da opportune azioni di policy”, sostiene Francesco Zirpoli, Direttore scientifico di CAMI: “Ci sono le condizioni affinché l’innovazione tecnologica porti benefici non solo di natura ambientale, ma anche economica e sociale”.

6) Cosa sono i carburanti sintetici? Possono essere un’alternativa per la decarbonizzazione?
I carburanti sintetici, anche chiamati “e-fuel”, sono benzina e diesel carbon neutral, cioè a impatto di carbonio sull’ambiente prossimo allo zero: quindi, con la loro combustione non viene immessa nell’atmosfera anidride carbonica aggiuntiva rispetto a quella già esistente. Per sintetizzarli si parte dall’idrogeno verde, ricavato dall’acqua tramite elettrolizzatori alimentati a energia rinnovabile (eolico, fotovoltaico, etc.). Più nel dettaglio, gli elettrolizzatori sintetizzano idrogeno verde tramite l’elettrolisi dell’acqua, processo con cui si separa l’ossigeno dall’idrogeno mediante l’utilizzo di corrente elettrica. Per produrre carburanti green, il suddetto idrogeno viene successivamente combinato con l’anidride carbonica catturata nell’atmosfera – la CO2 in questione può provenire pure dalle lavorazioni industriali di acciaio, cemento, fertilizzanti nonché raffinerie – per produrre metanolo da convertire in benzina, gasolio o cherosene (usato in campo aeronautico).

Questi carburanti quindi, utilizzati nei motori endotermici, rilasciano nell’ambiente la stessa quantità di anidride carbonica adoperata per sintetizzarli. Un bilancio che li rende climaticamente neutri. Ulteriore benefici? Rispetto ai carburanti di origine fossile vengono rilasciate nell’ambiente quantità di ossidi di zolfo e biossido di azoto trascurabili. La benzina carbon neutral che sta producendo la Porsche (insieme a Enel Chile, Chilean power company AME, la compagnia di Stato cilena Enap National Oil Company e Siemens Energy) ha già un prezzo inferiore ai 2 dollari al litro. Per Michael Steiner, responsabile Ricerca e Sviluppo del costruttore, “il potenziale degli e-fuel è enorme. Attualmente ci sono più di 1,3 miliardi di veicoli con motori a combustione interna in tutto il mondo. Molti di questi rimarranno sulle strade per i decenni a venire e gli e-fuel offrono ai loro proprietari un’alternativa quasi a emissioni zero”.

7) Le batterie esauste delle auto elettriche possono essere riciclate?

Dopo che hanno completato il loro primo ciclo vitale “a bordo” di un’auto elettrica (e conservano ancora una capacità utilizzabile residua attorno al 70%), le batterie possono essere recuperate per espletare funzioni di seconda vita: possono diventare serbatoi di energia per diverse applicazioni (batterie domestiche, accumulatori per reti elettriche, etc.). Inoltre, è tecnicamente possibile riestrarre la quasi totalità dei materiali preziosi (litio, cobalto, nichel, manganese) che le compongono. Quindi le batterie sono altamente riciclabili, si stima per oltre il 90%. C’è nondimeno da considerare che il processo richiede una cospicua quantità di energia elettrica: da qui, la necessità che quest’ultima sia green al fine di emettere meno anidride carbonica possibile durante le operazioni di recupero delle batterie esauste.

8) Quanto conta l’autonomia? La batteria piccola è più eco-friendly?

Attualmente l’autonomia delle auto elettriche è limitata: con le tecnologie attualmente a disposizione l’unica maniera per ovviare al problema è far crescere la taglia della batteria. Ne consegue che si impiegano batterie sempre più grandi, che hanno un impatto ambientale più critico rispetto agli accumulatori di taglia più piccola. Lo conferma una recente analisi del Transport Research Laboratory (TRL), che evidenza come soltanto il 50% degli utenti prenderebbe in considerazione l’acquisto di un veicolo a batteria con autonomia di 320 km. Mentre tale percentuale passa al 90% se l’autonomia salisse a 480 km.

Il ricorso a batterie agli ioni di litio più grandi, però, oltre a far lievitare il costo del veicolo, comporta emissioni di CO2 globalmente superiori, derivanti dalla fabbricazione stessa dell’auto (l’assemblaggio di un’auto elettrica comporta mediamente emissioni di CO2 superiori del 75-100% rispetto a un veicolo termico: differenza da attribuirsi proprio alla fabbricazione della batteria), dal maggior dispendio energetico per l’estrazione degli elementi necessari a produrre la batteria, finanche al suo riciclo.

Sembra che alcuni costruttori, peraltro, abbiano già messo a fuoco il problema, iniziando ad adottare batterie più compatte. Come la Mazda, che per la sua elettrica MX-30 usa un accumulatore da 35,5 kWh, che offre un’autonomia dichiarata di (appena) 200 km. “Non crediamo che una batteria molto grande, che significa un veicolo grande e pesante, sia la giusta direzione per il futuro”, sosteneva recentemente Joachim Kunz, responsabile europeo della ricerca e sviluppo di Mazda: “La produzione di batterie comporta emissioni di CO2 molto elevate dall’estrazione e dalla produzione del materiale. Un fardello che è molto più piccolo se la batteria è più piccola. Inoltre durante l’uso il consumo di energia è inferiore grazie al peso ridotto dell’automobile”. Anche perché, mediamente, gli automobilisti percorrono chilometraggi giornalieri che oscillano fra 22 e 72 km.

Dello stesso avviso è pure Thomas Ingenlath, amministratore delegato di Polestar – come detto azienda del Gruppo Geely, di cui fa parte anche Volvo –, che in tempi recenti sosteneva che l’autonomia di un modello elettrico debba essere di circa 480 km affinché il veicolo sia realmente competitivo ma, al contempo, l’industria “non può impegnarsi in una corsa all’autonomia, perché ciò significherebbe andare in una direzione irresponsabile. Se parliamo di rendere un’auto più efficiente, io sono d’accordo ma se stiamo solo aggiungendo sempre più chilowattora solo per migliorare commercialmente la gamma, questo non ci aiuta certo ad avvicinarci alla sostenibilità delle auto”.

9) Come sta rispondendo il mercato italiano all’auto elettrica?

Secondo l’analisi qualitativa BEV – Italy Progress Index, realizzata da Quintegia, il 2022 è stato un anno difficile per le auto elettriche in Italia, con un immatricolato in calo del 26,6% rispetto al 2021 (con 49.500 BEV immatricolate nel 2022). Gli ultimi tre mesi dell’anno hanno segnato un leggero recupero, ma comunque non sufficiente: “Da luglio a settembre si sono contate poco meno di 11.000 immatricolazioni di vetture elettriche, per arrivare invece a oltre 13.000 nel trimestre conclusivo. Il mese di dicembre con 4500 immatricolazioni BEV non è stato così impattante come negli anni precedenti ma in linea con gli altri mesi del 2022”.

Tra gli stati dell’Unione Europea il nostro Paese si piazza al 18esimo posto su 26 per quota di mercato delle BEV con 3,7%, contro il 12,1% della media dell’Unione Europea. “Direzione opposta per la situazione delle infrastrutture di ricarica pubblica in cui l’Italia risulta a buon punto e con un ritmo di crescita molto alto. Nel 2022 infatti sono state installate oltre 6.000 infrastrutture, quasi la metà di tutte quelle già presenti sul territorio a fine dicembre 2021”. Per quanto riguarda il parco circolante, nel nostro Paese il numero di vetture nel 2022 ha superato le 167.000 unità BEV, che in termini percentuali vuol dire +41,5% rispetto al 2021.

10) Quali sono le prospettive di lungo termine per le auto termiche, ibride ed elettriche?

Secondo un’elaborazione dell’Osservatorio Autopromotec, sulla base di studi del Bloomberg New Energy Finance, Goldman Sachs e del Gruppo Wood Mackenzie, tra vent’anni i due terzi delle auto in circolazione nel mondo saranno ancora alimentati da motori a combustione interna, mentre il restante sarà rappresentato da veicoli elettrici. Per la precisione, il 67% del parco circolante mondiale sarà formato da veicoli a benzina, diesel e ibridi (full o mild), il 28% da elettriche pure e ibride plug-in, mentre il restante 5% sarà formato da alimentazioni alternative come l’idrogeno (ma anche il metano e il GPL). Anche se la mobilità elettrica subirà un’accelerazione a partire dal 2035, anno in cui nell’Unione Europea non potranno più essere commercializzati veicoli con motori endotermici, a livello mondiale questi ultimi continueranno a risultare i più diffusi. Tuttavia, per quanto riguarda le vendite, i veicoli 100% elettrici saranno i più richiesti entro il 2050. In particolare la loro quota di mercato arriverà al 56%, contro il 18% delle motorizzazioni tradizionali, il 16% degli ibridi non alla spina il 5% di plug-in, ed il 5% di altre motorizzazioni tra cui l’idrogeno.

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