“Non dimenticate le ragazze iraniane. Non distogliete lo sguardo. Gridano per le strade da generazioni e adesso è ora che il mondo le ascolti. Lo meritano: il loro coraggio è immenso. Meritano la loro libertà. Sono una narratrice e conosco il potere universale della parola. Con il mio romanzo ho voluto mostrare ai lettori le gioie, le pene, gli amori, i sogni e le paure di due ragazzi, e in fondo di tutte le donne e di tutti i ragazzi di Teheran. Se le nostre speranze alla fine sono le stesse, per una generazione o per un’altra, in una parte del pianeta o nell’altra, è perché le nostre anime sono una cosa sola”. Nata in Turchia da genitori iraniani e cresciuta tra Iran, Germania e Stati Uniti, dove si è laureata in letteratura a Berkeley e specializzata in scrittura creativa alla New York University, Marjan Kamali è una scrittrice di bestseller tradotti in 20 lingue e pubblicati in tutto il mondo: su tutti, La ragazza di Teheran, che esce oggi in Italia per Libreria Pienogiorno. Apprezzatissimo dai lettori e dalla critica, che lo ha paragonato a due “masterpieces” come Mille splendidi soli di Khaled Hosseini e Le pagine della nostra vita di Nicholas Sparks (“ma ancora più bello”, ha scritto negli Usa Cosmopolitan), il romanzo è una travolgente storia d’amore e lotta nell’Iran in tumulto, e poi negli Stati Uniti. Un caleidoscopio di emozioni e colpi di scena. Dalla sua casa di Boston l’autrice ne parla in esclusiva per i lettori de ilfattoquotidiano.it.
Non appare un caso la scelta di far partire il suo romanzo dalle convulse giornate del colpo di Stato del 1953. Ritiene ci sia una relazione tra quegli accadimenti e la situazione attuale in Iran?
Certamente. Il colpo di stato del 1953 in Iran continua ad avere effetti a catena per il mondo intero, eppure raramente se ne parla a livello internazionale. Per un’intera generazione di giovani iraniani quell’evento ha provocato una perdita che ancora perdura: perdita dell’innocenza, perdita dell’idealismo, perdita della fiducia nelle potenze straniere e, per molti versi, perdita di un intero Paese. Per documentarmi, ho letto libri, mi sono immersa in resoconti autobiografici e ho esaminato attentamente articoli di giornale. Ma niente è stato utile come intervistare familiari e amici di famiglia che avevano vissuto quel periodo. Il filo conduttore che ho riconosciuto in tutti è una sorta di crepacuore collettivo. I giovani di quella generazione avevano diviso per sempre il loro mondo in prima e dopo. Sono stata sorpresa di vedere quanto fossero profonde le ferite di quel tradimento, e della disillusione che ne è derivata. Quel trauma ha sicuramente contribuito a spianare la strada alla rivoluzione khomeinista del 1979, 25 anni dopo. E l’attuale situazione in Iran è il risultato di tutti i traumi seguiti a quella rivoluzione.
Come è cambiata in questi 70 anni la condizione della donna in Iran?
Negli anni ’50, le donne iraniane erano libere di vestirsi come volevano, l’hijab era assolutamente facoltativo. Per quanto riguarda le leggi sul divorzio e sull’affidamento dei figli erano ancora svantaggiate, ma potevano ottenere un’istruzione e frequentare l’università. Qualche anno dopo hanno acquisito il diritto di voto e di candidarsi al parlamento, hanno ottenuto il diritto di chiedere il divorzio e di ottenere la custodia dei figli, e l’età minima per il matrimonio è stata aumentata da 13 a 18 anni. Ci sono stati alti e bassi, ma prima del 1979 ventidue donne sedevano in parlamento (circa l’8% del totale; in Italia nel 1968 la percentuale delle donne deputate era del 3%, ndr). Tutto è stato progressivamente spazzato via dopo la rivoluzione, quando la Repubblica islamica si è impadronita del Paese. Da quel momento tutte le ragazze di età superiore ai 9 anni erano tenute per legge a coprirsi i capelli e il corpo in pubblico. È stata creata la cosiddetta polizia morale per reprimere le donne, controllarle e spesso arrestarle. Il diritto di una donna di chiedere il divorzio liberamente è stato revocato. Devono indossare il velo, non possono andare in bicicletta, non possono cantare in pubblico, non possono ballare, non possono entrare liberamente in uno stadio, non possono amministrare possedimenti, non possono lasciare il Paese a meno che non lo decida un uomo della famiglia o il marito. E mille altri ‘non possono’. L’età del matrimonio per le ragazze è stata inizialmente abbassata addirittura a 9 anni, e solo nel 2002 il parlamento l’ha innalzata a 13. Ogni tentativo di innalzarla ulteriormente è stato ogni volta bloccato dalla magistratura.
Negli ultimi cento giorni il regime iraniano ha ucciso oltre 500 manifestanti, imprigionato quasi 19mila persone e minacciato di giustiziarne altre centinaia. Amnesty International e Humans Right Watch denunciano violenze e stupri sistematici sulle ragazze che sono state arrestate in questi mesi. Eppure le ragazze iraniane continuano a lottare.
Qualche settimana fa le studentesse universitarie si sono tolte l’hijab obbligatorio e hanno cantato a squarciagola: ‘Sono una donna libera’. Sono profondamente ammirata e commossa dalla loro lotta e dalla loro audacia. Penso che la loro determinazione e resistenza mostri quanto sono esauste di essere controllate da uomini al governo che si nascondono dietro la religione per esercitare una feroce repressione, e persino abusare dei corpi delle donne. Le ragazze in Iran ne hanno abbastanza. Basta essere controllate. Basta essere represse. Basta essere prigioniere per ciò che indossano, ciò che dicono e per chi amano. Basta con l’oppressione cieca di un gruppo di vecchi terrorizzati dalla loro vivacità, dai loro talenti, dalle loro abilità, dai loro sogni. Meritano di poterli realizzare quei sogni, e se non altro di vivere la loro vita.
Mai come ora la resistenza contro il regime in Iran è stata così giovane e internazionale. La generazione Z guida le proteste, e anche per questo il governo cerca di bloccare internet e i social media in ogni modo. Un altro elemento del suo romanzo è il potere di formazione, di consapevolezza, e anche di rivoluzione dei libri. Del resto il motore delle rivendicazioni di questi mesi sono appunto gli studenti…
“L’Iran ha una lunga e ricca storia letteraria. Poeti come Omar Khayaam, Rumi, Saadi e Hafez sono stati venerati per secoli. Ancora oggi molti iraniani conoscono a memoria i loro versi. La nostra è una cultura che riconosce il potere delle parole e ha sempre adorato i suoi scrittori. L’istruzione è un valore nella cultura iraniana e persino adesso, sotto la Repubblica islamica, pur con le enormi difficoltà, un vasto numero di studenti universitari sono donne. L’ondata di proteste nella storia dell’Iran negli ultimi decenni è sempre iniziata nelle università. Ma ciò che è interessante questa volta è che anche gli studenti delle scuole superiori e persino delle scuole medie sono scesi in piazza per protestare”.
I protagonisti di La ragazza di Teheran, Roya e Bahman, sono entrambi molto giovani: per loro democrazia significa anche il diritto di ballare il tango a una festa, come hanno fatto loro tante volte insieme ai loro amici. Le conquiste democratiche, anche una volta ottenute, non vanno date per scontate: è anche questa una lezione del suo romanzo?
“È incredibilmente doloroso vedere improvvisamente portati via diritti che davi per acquisiti. Ma è accaduto, in molte epoche e in molte parti del mondo. Come romanziera, il mio obiettivo principale è raccontare una bella storia, che funzioni. Non penso che sia mio compito insegnare direttamente la democrazia, ma spero che appassionandosi ai miei personaggi, e riconoscendosi in loro, i lettori di tutto il mondo possano anche vedere quanto gli iraniani hanno lottato per la democrazia per oltre cento anni. Il desiderio di libertà e democrazia ha una lunga storia in Iran, con così tanti alti e bassi. Anche chi è in esilio o comunque all’estero cerca di dare una mano. Tutti noi possiamo e dobbiamo farlo: dobbiamo protestare, ovunque, con ogni mezzo, in pubblico o sui social media. Anche in Italia. Dobbiamo pretendere che le esecuzioni, che minacciano perfino i minorenni, si fermino subito.
E poi tutti possiamo leggere. La letteratura ha un potere. La letteratura ci unisce. Nutre la sete che tutti abbiamo dentro. Una sete di libertà necessaria come l’aria, come l’amore, come la speranza. Ho letto da qualche parte che la speranza crea dipendenza. Per quanto il governo li abbia terribilmente traditi, i desideri di quelle ragazze e di quei ragazzi non possono essere repressi. Come molti iraniani della diaspora, io sono piena di speranza e di dolore di fronte alle donne e agli uomini che scendono in piazza. Sono anche consapevole del trauma che tanti di noi portano dentro. Il trauma di sapere che la propria patria porta in sé tanta bellezza e allo stesso tempo tanta tragedia. Ma quel trauma non può fermare la speranza. I personaggi del mio romanzo si rendono conto che nonostante tutte le perdite che hanno subito nella loro vita l’amore che nutrono l’uno per l’altro è più forte. E questa è la verità. L’amore è più forte: resiste, sopravvive a tutto. Io in fondo ho voluto scrivere proprio questo: un inno alla caparbia forza dell’amore”.